petroliera

Il petrolio ombra di Mosca: il segreto della buona economia russa.

di Andrea Molle

Abstract (Italian)

Questo articolo esamina l’origine della robusta condizione finanziaria della Russia alle soglie del terzo anno del conflitto in Ucraina, rilevando come il sostanziale afflusso di denaro dalle esportazioni di petrolio, in particolare all’India, abbia rafforzato le casse dello Stato russo. L’Autore, discute inoltre sul ruolo della Flotta Ombra del Cremlino, una forza marittima clandestina che elude le normative internazionali, facilitando il commercio di petrolio e oro insanguinato e contribuendo a mantenere il flusso di entrate verso la Russia. Infine, viene analizzata la dipendenza dell’India dal petrolio russo come strategia per mantenere stabili i prezzi globali del petrolio, nonostante le critiche internazionali.

Keywords: Petrolio, flotta ombra, economia russa

L’economia russa è robusta

La Russia, nel terzo anno del conflitto in Ucraina, si trova in una posizione finanziaria robusta, con le casse dello Stato rifornite da un notevole afflusso di denaro. Nel 2023, le entrate federali della Russia hanno raggiunto un record di 320 miliardi di dollari e si prevede che continueranno ad aumentare. Secondo alcuni analisti, circa un terzo di queste entrate è stato destinato alla guerra in Ucraina l’anno precedente, mentre una percentuale ancora maggiore finanzierà il conflitto nel 2024. I notevoli fondi a disposizione del Cremlino posizionano Mosca in una posizione più favorevole per sostenere una guerra prolungata rispetto a Kiev, che lotta per mantenere il vitale flusso di denaro occidentale.

Oltre all’oro insanguinato proveniente dall’Africa, questo incremento di entrate è stato alimentato dalle vendite eccezionali di petrolio grezzo all’India. Transazioni che hanno generato introiti stimati intorno ai 37 miliardi di dollari a cui si aggiungono circa 1 miliardo di dollari provienienti dal petrolio raffinato in India e poi esportato negli Stati Uniti. Tale flusso di entrate è il risultato diretto dell’aumento degli acquisti di petrolio russo da parte di Delhi, che secondo un’analisi del Centre for Research on Energy and Clean Air (CREA), riportata di recente dalla CNN, ora superano di 13 volte i livelli prebellici.

L’analisi delle rotte di trasporto del greggio

L’analisi delle rotte di trasporto del greggio suggerisce inoltre un coinvolgimento della cosiddetta Flotta Ombra del Cremlino. Con questo termine ci si riferisce a una forza marittima clandestina russa, composta da navi che operano al di fuori delle norme marittime internazionali. L’indagine sulla Flotta Ombra è iniziata nei primi anni 2010, quando le principali agenzie di intelligence occidentali e diversi analisti marittimi hanno notato comportamenti sospetti in navi russe o battenti bandiere di paradisi fiscali. Queste navi sono spesso osservate ad operare in aree strategicamente significative, come vicino a cavi di comunicazione sottomarini e installazioni militari, spesso spegnendo i loro sistemi di identificazione automatica per sfuggire al monitoraggio. Le implicazioni della Flotta Ombra russa sono molteplici e tutte potenzialmente pericolose. In primo luogo, c’è preoccupazione per il suo ruolo nel sostenere le operazioni militari russe e nel violare le norme internazionali e le leggi marittime. La presenza di questa flotta mina la sicurezza e la stabilità marittime globali, complicando gli sforzi affinchè la Russia sia tenuta a rispondere delle sue azioni illegali in mare. Una delle attività tipiche della Flotta Ombra nel settore petrolifero è lo scambio di greggio tra due navi con l’obiettivo di mascherarne l’origine e la destinazione finale, confondendo le autorità riguardo alla provenienza e all’acquirente finale. Decine di tali trasferimenti avvengono ad esempio ogni settimana nel Golfo Laconico in Grecia, un punto di passaggio strategico verso il Canale di Suez e i mercati asiatici. Alla fine del 2022, con il supporto di diversi paesi, gli Stati Uniti hanno imposto un limite di prezzo, impegnandosi a non acquistare petrolio russo oltre i 60 dollari al barile.

La flotta ombra

Questi paesi hanno anche vietato alle proprie compagnie di navigazione e di assicurazione, attori chiave nel trasporto marittimo globale, di facilitare il commercio di petrolio russo oltre tale prezzo. Tuttavia, questo limite di prezzo ha paradossalmente alimentato la creazione della Flotta Ombra. Con catene di approvvigionamento più lunghe, è infatti più difficile individuare i trasferimenti da nave a nave e determinare il costo effettivo di un barile di petrolio russo e diventa facile aggirare le sanzioni. La Flotta Ombra ha pertanto consentito alla Russia di creare una rete di navigazione fantasma parallela a quella legale, in grado di eludere il monitoriaggio e aggirare le sanzioni occidentali, con centinaia di petroliere la cui proprietà non è chiara e che seguono rotte così complicate da risultare impossibili da seguire. Secondo le analisi effettuate grazie all’intelligenza artificiale della società di analisi marittima Windward, questa flotta è cresciuta fino a includere nel 2023 circa 1.800 navi.

In questo quadro, gli acquisti di petrolio da parte dell’India hanno avuto l’effetto di alleviare la pressione delle sanzioni sulla Russia. L’India difende le sue politiche di approvvigionamento energetico da Mosca come un modo per mantenere i prezzi globali del petrolio più stabili, evitando di competere con le nazioni occidentali per il petrolio del Medio Oriente. Il governo di Delhi ha dichiarato che qualora l’India dovesse smettere di comprare greggio da Mosca e più petrolio dal Medio Oriente, il prezzo del petrolio salirebbe a 150 dollari avviando una spirale di aumento dei costi che il mondo non può permettersi. Ma una parte di questo petrolio grezzo viene raffinato nelle raffinerie lungo la costa occidentale dell’India e successivamente esportato negli Stati Uniti e in altri paesi che hanno imposto sanzioni sul petrolio russo. Questi prodotti raffinati, non essendo soggetti a sanzioni, costituiscono ciò che gli analisti chiamano la “scappatoia delle raffinerie”. Sempre secondo l’analisi del CREA, gli Stati Uniti sono stati il principale acquirente di prodotti raffinati dall’India derivati dal petrolio grezzo russo nel 2023, per un valore di 1,3 miliardi di dollari. E il valore di queste esportazioni di prodotti petroliferi aumenta notevolmente quando si considerano anche gli alleati degli Stati Uniti che applicano sanzioni contro la Russia. Il CREA ha stimato che questi paesi abbiano importato prodotti petroliferi dal petrolio grezzo russo per un valore di 9,1 miliardi di dollari nel 2023, registrando un aumento del 44% rispetto all’anno precedente.

Mosca ha beneficiato di questo processo sia attraverso la tassazione diretta delle esportazioni che attraverso i profitti ottenuti da Rosneft, la società petrolifera di stato russa, nell’ambito della raffinazione e dalla rivendita ai paesi occidentali.

Entrate e spese russe: un record

Secondo un’analisi condotta dal think tank RAND sui conti del Ministero delle Finanze russo, nel 2023 le entrate e le spese federali della Russia hanno raggiunto entrambe livelli record. Sebbene per adesso Mosca non sia ancora arrivata al pareggio di bilancio, a causa del pesante costo della guerra e delle perdite di entrate dovute in generale alle sanzioni il deficit di bilancio federale è in tendenza decrescente. Le imposte interne sulla produzione e sull’importazione sono entrambe significative ed efficienti, il che implica che la popolazione russa è pesantemente tassata per finanziare il conflitto. Tuttavia, gli analisti avvertono che in questo quadro economico anche la più piccola violazione delle sanzioni contro la Russia può generare ingenti profitti, date le enormi somme coinvolte nel commercio petrolifero e dell’oro, e questo potrebbe portare il regime a diminuire la pressione fiscale generando un maggior supporto per le operazioni militari correnti e future. Per questo è di primaria importanza affrontare efficacemente questa minaccia con una maggiore vigilanza, cooperazione e impegno diplomatico internazionale che includa nuove misure contro le navi della Flotta Ombra e le aziende sospettate di agevolare il trasporto illegale del petrolio e dell’oro russo.


Azione israeliana in Libano e rischio di escalation regionale: il punto del Direttore.

Dall’intervista di Stefano Leszczynski a Claudio Bertolotti, per Radio Vaticana, trasmissione Il Mondo alla Radio del 3 gennaio 2024 (VAI AL PODCAST)

L’azione israeliana in Libano e il rischio di escalation.

Gli attentati a Beirut e in Iran infiammano la crisi medio orientale. La guerra di Israele tra battaglie nella Striscia di Gaza e omicidi mirati.

Federica Saini Fasanotti – storica militare e studiosa dell’ISPI

Eric Salerno – giornalista esperto di questioni medio orientali e relazioni internazionali

Claudio Bertolotti – direttore di Start Insight e ricercatore ISPI

Il 2 gennaio 2024, un attacco nel sud di Beirut, Libano, in cui è avvenuta l’uccisione del numero due di Hamas, Saleh al-Arouri, è stato attribuito a Israele e ha preso di mira una roccaforte del gruppo sciita e filo-iraniano Hezbollah. L’attacco ha causato anche vittime collaterali, suscitando la condanna di Hezbollah e la promessa che l'”assassinio” di al Arouri a Beirut non resterà impunito. Le forze armate israeliane hanno diffuso video dell’attacco, sottolineando il loro coinvolgimento nell’incidente. L’evento ha sollevato preoccupazioni riguardo a una possibile escalation tra Libano e Israele.

Dottor Bertolotti, c’è il rischio che le operazioni mirate israeliane come quella in Libano inneschino davvero un conflitto regionale?

Dal punto di vista razionale – secondo Bertolotti – nessuno degli attori coinvolti vuole un allargamento del conflitto a livello regionale. Non lo vuole Israele e non lo vuole l’Iran che, invece, punta a una serie di micro-conflitti e coinvolgimento dei piccoli attori regionali, dagli Houthi nello Yemen ad Hezbollah in Libano per distrarre lo sforzo militare di Israele, indebolendolo. Ma al di la della volontà razionale ci sono le scelte emotive, che spesso condizionano le dinamiche delle relazioni internazionali che possono portare ad effetti incontrollabili. E il rischio di un’escalation orizzontale a livello regionale, in questo senso, è un rischio possibile.

Dott. Bertolotti, la prudenza del governo libanese, che ha chiesto a Hezbollah di non reagire a Israele in maniera autonoma, che cosa suggerisce?

Il governo di Beirut è il primo a voler scongiurare un allargamento del conflitto, perchè ciò significherebbe il collasso dello stato libanese e l’avvio di una nuova guerra civile che sarebbe micidiale per la sopravvivenza dello stesso stato libanese. Questa la ragione per cui il governo libanese svolge un ruolo di intermediario con Hezbollah che noN è, come non è mai stato, sotto controllo governativo, ponendosi come milizia, esercito autonomo legato ai gruppi di potere sciiti a loro volta legati con l’Iran, che di Hezbollah ne sta facendo un uso opportunistico in funzione anti-israeliana, senza però farsi direttamente coinvolgere.

Direttore, la posizione di Ankara (membro della NATO) in questa crisi pone alcuni interrogativi sul proprio ruolo e affidabilità?

La Turchia persegue un proprio e ben definito progetto di proiezione di influenza in tutto l’arco mediterraneo allargato, dal Corno d’Africa ai paesi del Maghreb. La vicinanza ad Hamas, che si lega alla pericolosa organizzazione dei Fratelli Musulmani, è coerente con questa visione di potenza che prevede il consolidamento dei rapporti con i governi e le organizzazioni locali in un’ottica di ricostituzione di un perimetro geopolitico artificiosamente coerente con la storia e con l’ego sproporzionato del presidente Erdogan. Ma non illudiamoci che una qualsiasi alternativa a Erdogan possa avere una visione differente, questa è l’ambizione della Turchia contemporanea.


Guerra Israele-Hamas: quale scenario dopo la tregua? RaiNews24

di Claudio Bertolotti


Dall’intervento del direttore Claudio Bertolotti a In un’ora, RaiNews 24, puntata del 27 novembre 2023.

La tregua e le sue dinamiche

Guardando alla striscia di Gaza e al territorio israeliano, al momento non sembrano esserci stati episodi significativi in grado di influire sulla tenuta della tregua tra le parti, comprese eventuali iniziative da parte del libanese Hezbollah. Ad oggi sembra che entrambe le parti siano interessate ad estendere il cessate il fuoco per altri 4 giorni. Per Israele è un’opzione vantaggiosa dal punto di vista politico e di ricerca di consenso, anche perché ciò offrirebbe maggiori garanzie per eventuali altri prigionieri rapiti che potrebbero essere rilasciati dai terroristi di Hamas. Per contro, lo svantaggio per Israele sarebbe tattico e operativo, perché lascia le truppe schierate sul terreno in una posizione di relativa vulnerabilità e darebbe ad Hamas il tempo per riorganizzare la propria capacità di comando e controllo e logistica, fortemente compromessa dall’uccisione di ben cinque comandanti di medio-alto livello negli ultimi giorni[1].

Per Hamas, si rileva un apparente risultato politico nell’aver ottenuto una tregua con Israele, ma non dobbiamo dimenticare che questa non è una concessione da parte di Hamas, bensì il risultato di un’operazione controffensiva israeliana che ha messo sotto pressione la leardership palestinese, sia quella politica che quella militare. Va però rilevato che lo stesso Hamas ha tratto grande vantaggio sul piano militare poiché, oltre alla riorganizzazione in atto, una consistente parte degli aiuti umanitari, in particolare il carburante, verrebbe dirottata prioritariamente a sostegno dei combattenti e non della popolazione civile.

Quale lo scenario futuro?

Sul prolungamento del cessate il fuoco sembra che ci sia una posizione condivisa nel proseguirlo poichè, di solito, o sono estesi da un accordo fatto mentre sono in vigore o sono infranti prima della scadenza. E al momento non sembrano esserci violazioni significative in corso.

Difficile anche fare previsioni circa l’andamento della guerra, per quanto appaia imprescindibile il risultato di una vittoria israeliana e questo non per una ragione limitata all’andamento della guerra, bensì per l’esistenza stessa dello Stato di Israele che, se non fosse in grado di imporre con la forza la propria superiorità su Hamas, creerebbe un pericoloso precedente a cui seguirebbero altre azioni offensive a danno dei cittadini israeliani all’interno di Israele e non solo da parte palestinese. È dunque una questione di sopravvivenza per Israele, che non farà sconto alcuno, nonostante il prolungamento del cessate il fuoco.

Per contro, Hamas guarda al futuro immediato con la speranza di un allargamento del conflitto che sembra però uno scenario che si allontana sempre di più, con un Iran sempre più convinto a non spingere verso un’escalation che sarebbe devastante per Teheran. Iran, che non vuole essere coinvolto direttamente in una guerra regionale ma che persiste nel sostenere ed alimentare azioni di disturbo da parte dei suoi attori di prossimità, dal libanese Hezbollah alle milizie nello Yemen e in Iraq.

E allora ad Hamas, esclusa l’ipotesi di un’escalation orizzontale che coinvolga tutti gli attori regionali, resta l’opzione dell’allargamento interno, con il coinvolgimento delle milizie palestinesi della Cisgiordania che otterrebbero il risultato di impegnare le truppe israeliane su un secondo eventuale fronte.


[1] I comandanti uccisi sarebbero: il comandante della Brigata della Striscia di Gaza settentrionale Ahmed Ghandour, a capo delle attività di Hamas nel nord della Striscia di Gaza. Gli attacchi aerei israeliani avrebbero anche ucciso Farsan Khalifa, il capo del Comitato Tulkarm di Hamas responsabile di aver reclutato e formato le cellule di combattenti nel campo profughi di Nur al Shams, vicino a Tulkarm, in Cisgiordania.


L’informazione “dettata” da Hamas: la guerra cognitiva dei terroristi. Dal commento di C. Bertolotti a Start (SKY TG24).

I commenti di Claudio Bertolotti, Direttore di START inSight e Natalie Tocci, Direttore IAI a START, trasmissione di SKY TG24 (puntata del 19 ottobre 2023)

(Bertolotti) “Guardando al caso dell’ospedale nella striscia di Gaza colpito da un razzo palestinese, emerge quanto sia pericoloso dar credito a informazioni non verificate in grado di incidere in maniera significativa, sia sull’opinione pubblica, sia sui processi decisionali, politici e militari.

In questo specifico caso, così come in molti altri, la percezione ha prevalso sulla realtà: e questo è l’effetto della guerra cognitiva, volta a indirizzare il nostro pensiero. Una guerra che Hamas sta conducendo in maniera estremamente abile e che ha portato a definire i tempi e le modalità delle relazioni internazionali, annullando o posticipando gli incontri tra le parti. La responsabilità di Israele è stata esclusa, ammesso che ci sia mai stata. E questa, da un lato è la sconfitta del giornalismo che non è stato in grado di verificare, prestandosi alla propaganda di un gruppo jihadista, e, dall’altro è stata la grande vittoria della disinformazione di Hamas, che è così riuscita a spingere le masse arabe nelle piazze e, al contempo, ha smosso la mole di utili inconsapevoli che in Occidente sono caduti nel tranello, o meglio nell’operazione.”


Israele: una guerra diversa. Il punto della situazione e l’analisi

di Claudio Bertolotti

dall’intervento di Claudio Bertolotti a SKY TG24 Mondo (Puntata del 13 ottobre 2023)

Intervento video di Claudio Bertolotti a SKY TG24 Mondo, ospite di Roberto Tallei

Il punto della guerra contro Hamas a Gaza (13 ottobre)

A quasi una settimana dagli attacchi di Hamas contro le città e le comunità israeliane, continuano gli attacchi dell’IDF contro siti terroristici a Gaza, mirati alle capacità militari e amministrative di Hamas. L’aviazione israeliana ha colpito alti dirigenti, centri di comando e controllo, siti di lancio di razzi, istituzioni finanziarie e governative chiave di Hamas che contribuiscono alle sue operazioni militari. In totale, oltre 1.000 terroristi sono stati uccisi (Fonte IDF).

L’IDF continua a fare affidamento sull’intelligence per eseguire questi attacchi. Una serie di obiettivi colpiti includeva una rete di siti di lancio di UAV all’interno e sopra le case di Gaza. Il sito preso di mira la scorsa notte includeva le case di un agente della forza Nukhba, un sito operativo di Hamas in cui sembra si trovasse il fratello di Yahya Sinwar e una postazione dell’intelligence di Hamas utilizzata per tracciare i movimenti delle forze (fonte IDF).

Venerdì, in vista di una continuazione degli attacchi operativi dell’IDF, l’IDF ha chiesto ai civili di Gaza di spostarsi a sud di Wadi Gaza attraverso una varietà di canali, compresi i media tradizionali e i media digitali, tutti in arabo. L’obiettivo è quello di fornire allarmi efficaci e anticipati in modo che i civili possano proteggersi evacuando, cercando riparo o intraprendendo altre azioni appropriate (fonte IDF).

Il valico di Erez rimane non utilizzabile a seguito degli attacchi di Hamas, mentre il valico di Kerem continua ad essere sotto attacco. 9 delle 10 linee elettriche da Israele a Gaza sono state distrutte dal lancio di razzi di Hamas. Israele ha dichiarato che non riparerà queste infrastrutture né continuerà la sua fornitura di elettricità e carburante a Gaza, che Hamas sfrutta per uso militare e impedisce che raggiunga la popolazione civile (fonte IDF).

Difesa del sud di Israele

Le forze dell’IDF nel sud di Israele continuano a respingere i tentativi di attacchi di infiltrazione, così come gli attacchi isolati da parte di cellule terroristiche rimaste nel sud di Israele. Ciò includeva la neutralizzazione di un terrorista vicino al Kibbutz Kissufim giovedì sera, una delle città che erano state attaccate durante il massacro di sabato. In totale, almeno cinque terroristi sono stati neutralizzati dalle forze dell’IDF nelle ultime 24 ore.

Altri settori militari

L’esercito è in uno stato di elevata capacità e preparato a qualsiasi minaccia. Nell’ambito della valutazione della situazione in corso, l’IDF ha dichiarato l’area di Metula, la parte più settentrionale di Israele, come zona militare interdetta. Le forze dell’IDF sono dispiegate e monitorano attivamente l’area.

Nel corso delle operazioni notturne in Giudea e Samaria, sono stati arrestati 47 soggetti, 34 dei quali appartenevano ad Hamas. Ad Azun è stato trovato anche un laboratorio di esplosivi di Hamas. In totale, 130 agenti di Hamas sono stati arrestati nella regione di Giudea, Samaria e Beka’a da sabato.

Il fronte interno

Il lancio di razzi da Gaza è continuato, comprese raffiche di razzi verso il sud e il centro di Israele, con una salva sparata verso il nord di Israele venerdì pomeriggio. Sbarramenti particolarmente pesanti furono sparati verso Ashkelon (132.000 abitanti) e Sderot (27.000 abitanti). A partire da ieri, oltre 6.000 razzi sono stati lanciati contro Israele.

Analisi generale

Perché questa guerra sarà diversa da quelle affrontate negli anni precedenti dall’esercito israeliano?

Questa guerra sarà diversa da quelle affrontate negli anni precedenti perché a differenza delle precedenti rischia di sfociare in una guerra regionale in grado di coinvolgere l’Iran, la Siria, il Libano e gli Stati Uniti, e di allargarsi ulteriormente con strascichi di lungo periodo difficili da prevedere.

L’allargamento regionale del conflitto, da un punto di vista razionale in realtà non è auspicato da nessuno, in primo luogo da Hezbollah e dal Libano a causa del rischio di implosione economica e sociale dello stato libanese, con il rischio di una nuova guerra civile. Ma neanche l’Iran vuole dare il via a un’escalation che allarghi il conflitto. Ma da un punto di vista emotivo c’è sempre il rischio che le parti siano spinte o si lascino trascinare verso una crescente partecipazione alla guerra contro Israele e questo rappresenterebbe un punto di non ritorno che determinerebbe la ridefinizione violenta degli equilibri dell’intero vicino e medioriente.

Differenze tra Hamas, Hezbollah, Jihad dal punto di vista della possibile offensiva e della reazione all’offensiva israeliana

Nella sostanza, e sposando l’approccio israeliano dobbiamo considerare le due organizzazioni non come “insorti” o “guerriglieri”, ma come “eserciti organizzati, ben addestrati, ben equipaggiati per le loro missioni”. Questo da un punto di vista sostanziale che li colloca all’interno della medesima categoria di nemici sul campo di battaglia.

E sempre sul piano sostanziale sono due minacce dirette alla sicurezza dello Stato di Israele, e per questo inserite negli obiettivi primari della strategia di difesa israeliana.

Da un punto di vista storico e ideologico, le differenze ci sono, e non solamente dal punto di vista religioso, sciiti gli appartenenti a Hezbollah, sunniti gli appartenenti ad Hamas. Non sono ideologicamente vicini, tant’è che nella guerra in Siria hanno combattuto su fronti contrapposti, ma entrambi ambiscono a distruggere Israele.

Hezbollah movimento jihadista islamico sciita che nasce come movimento di resistenza anti-israeliano. Il suo obiettivo è la difesa del Libano contro la “probabile aggressione israeliana” e la creazione di uno Stato islamico libanese, però in contrapposizione alla visione dello Stato islamico, già ISIS.

Hamas nasce anch’esso come movimento islamista, ma sunnita e fortemente legato alla Fratellanza musulmana, con chiare connotazioni radicali. L’obiettivo primario è la liberazione dei territori palestinesi e la distruzione dello Stato di Israele, non riconosce le Nazioni Unite e rifiuta di accettare qualunque conferenza di pace e qualunque forma di compromesso con Israele, rifiutando di fatto l’ipotesi dei due stati per due popoli.

Quanto sono “fondamentali” per Hamas ostaggi e residenti? Hamas si è detta contraria a corridoio umanitario

Hamas, accecato dalla propria visione e immerso nella propria battaglia ideologica, ha sottovalutato gli effetti di questa operazione a danno di Israele e pagherà con la propria esistenza l’eccesso di violenza. In questo momento la presenza degli ostaggi viene sfruttato da Hamas per indurre Israele a un minore livello di violenza contro Gaza. Ma questo non avverrà. E allora Hamas ricorre alla carta estrema di trasformare l’intera popolazione di Gaza in un immenso scudo umano da sfruttare a proprio favore o da trasformare in martiri utili alla propaganda jihadista che verrà sfruttata ed ereditata dai movimenti jihadisti che raccoglieranno il testimone di Hamas dopo la sua scomparsa.

È vero che Israele ha abbandonato lo spionaggio “sul campo” per affidarsi tutto alla tecnologia? È per questo che un attacco pianificato per due anni sia stato completamente ignorato?

La dottrina strategica di Israele del 2015 e il più recente concetto operativo delle forze armate israeliane prevede, come pilastro e elemento di successo, il funzionamento dello strumento intelligence. Sia in termini di raccolta informazioni ad alto livello tecnologico sia attraverso la raccolta informazioni diretta dagli uomini sul campo. Nessuna delle due è venuta meno nel corso degli anni, ma è evidente che qualcosa non ha funzionato, in parte per aver sopravvalutato l’effettiva propria capacità informativa, in parte per l’alto livello di depistaggio attuato da Hamas e, forse in parte, per la competizione interna tra Shin Bet e Mossad, le due agenzie di intelligence israeliane.

Come potrà svilupparsi l’operazione di terra? Chirurgica o più su vasta scala? Quanto può durare? Con quali fasi?

La somma delle due opzioni: una prima attività di bombardamento mirato e chirurgico a cui seguirà un’invasione massiccia mista: mezzi corazzati e fanteria leggera per il combattimento nel centro urbano di Gaza, che rappresenta la più pericolosa delle fasi della guerra e che potrebbe portare a un elevato numero di vittime da entrambe le parti. Rimando alla lettura dell’analisi dettagliata pubblicata con ISPI (Spazio e tempo dell’offensiva israeliana a Gaza).

Alle operazioni militari si affiancano operazioni psicologiche per influenzare opinione pubblica e attivazione canali diplomatici. Quanto sarà fondamentale il sostegno della popolazione di Gaza ad Hamas?

Hamas e Israele sfruttano entrambe le operazioni psicologiche. Israele per indurre il terrore nei confronti di Hamas; basta la frase di Netanyahu “ogni uomo di Hamas è un uomo morto” per far capire il peso e la gravità della situazione. Al tempo stesso Hamas spaccia per mera propaganda la possibilità che Israele attacchi violentemente Gaza, e questo per tenere la popolazione nell’area degli obiettivi militari, arrivando anche a minacciare le stesse famiglie palestinesi in cerca di salvezza.

Il sostegno della popolazione per Hamas è certamente importante ma, a questo punto credo non risolutivo. Se Hamas è dovuta ricorrere alla minaccia per tenere la popolazione di Gaza all’interno della città significa che la fiducia nell’organizzazione politica e terrorista è venuta meno.

Rispetto alla geografia di Gaza, dove potrebbe avvenire lo schieramento?

Guardando alle forze in campo e alla geografia del territorio, limitandoci alla componente terrestre possiamo ipotizzare un primo schieramento di carri armati israeliani a sud di Gaza City dove c’è una linea di cresta che domina il centro urbano; area che potrebbe essere strategica per il controllo del terreno e per il supporto di fuoco. Al tempo stesso, una seconda aliquota potrebbe posizionarsi all’estremo nord di Gaza, vicino al valico di Erez, dove si trovano aree rurali e ampi terreni utili allo schieramento di unità di supporto al combattimento.  Un terzo punto di accesso potrebbe essere l’estremo sud, vicino a Rafah. 

Un’altra area di possibile schieramento a supporto delle unità di fanteria si trova a est di Khan Yunis, a sud della città di Gaza, dove i mezzi corazzati possono muoversi più facilmente e prendere posizioni di fuoco.

Una nota sull’uso fosforo bianco

L’uso di munizionamento al fosforo bianco è legittimo quando usato contro obiettivi militari isolati, per illuminare il campo di battaglia di notte o per creare cortine di fumo utili a nascondere il movimento delle truppe sul terreno. È invece vietato il suo utilizzo in ogni caso in cui vi sia il rischio di colpire obiettivi civili. E in questo senso va la decisione israeliana di imporre alla popolazione di Gaza di abbandonare il centro urbano; ed è lo stesso motivo per cui Hamas starebbe obbligando con la minaccia e la violenza la popolazione di Gaza a rimanere nelle proprie case, come scudi umani in funzione di deterrenza.


Israele: la risposta e lo scenario di guerra

di Claudio Bertolotti

Il 7 ottobre, Hamas attraverso la sua ala militante, la Brigata Al Qassem, ha lanciato un attacco a sorpresa, terrestre e aereo, contro Israele. Un fatto che si è imposto come la più significativa escalation di violenza tra le due parti degli ultimi decenni. Centinaia di combattenti di Hamas hanno attraversato la Striscia di Gaza in territorio israeliano e hanno attaccato i posti di confine, investendo con la loro violenza obiettivi militari e aree residenziali (fonte ISW).

In tale contesto di violenza, Hamas e la Brigata Al Qassem hanno invitato le milizie palestinesi e i membri dell’Asse della Resistenza a unirsi alla lotta contro Israele.

Un appello, rivolto e raccolto dal gruppo libanese Hezbollah che, unitamente alle milizie palestinesi, hanno condotto attacchi contro le posizioni israeliane rispettivamente dal Libano meridionale e dalla Cisgiordania (fonte ISW)

Quali le ragioni all’origine di questa azione coordinata e strutturata su ampia scala?

Due i principali fattori determinanti il conflitto in corso: interni ed esterni alla questione palestinese.

Il principale fattore interno è rappresentato dalla competizione tra l’ala politica e militare di Hamas e l’Autorità nazionale palestinese (Anp), dove il primo attore intende esautorare il secondo per divenire unico punto di riferimento della popolazione palestinese e nei rapporti internazionali.

Parallelamente al fattore interno si impone quello esterno, conseguente al processo di normalizzazione dei rapporti tra paesi arabi (Arabia Saudita in primis) e Israele. Un effetto destabilizzante per le ambizioni regionali dell’Iran.

Guardando ad entrambe le dimensioni, interne ed esterne, è ovvio che fosse nell’interesse di Hamas e dell’Iran minare tale accordo. Dunque una convergenza di interessi, sebbene su basi molto diverse.

L’aver inflitto un così grave danno ad Israele, oltre ad aver evidenziato la vulnerabilità di Gerusalemme, ha dimostrato forza e volontà di Hamas (e dell’Iran) e la debolezza della classe politica dell’ANP, disposta a concedere molto (troppo) agli israeliani.

Un recente articolo di Samia Nakhoul e Jonathan Saul per Reuters getta luce su alcuni aspetti interessanti, che dovranno presto essere approfonditi per comprendere le dinamiche che hanno determinato lo scenario a cui stiamo assistendo. In primis, Hamas avrebbe costruito un finto insediamento israeliano a Gaza per addestrarsi in preparazione dell’attacco; in secondo luogo, la preparazione sarebbe durata due anni, durante i quali Hamas ha dato l’impressione di non voler entrare in conflitto aperto ma di essere piuttosto focalizzato su economia/assicurare i diritti dei lavoratori della Striscia di Gaza; infine, terzo elemento, molti leaders di Hamas sarebbero stati all’oscuro dell’operazione.

In ogni caso, il risultato ottenuto è stato quello di minare nel breve periodo l’accordo tra le parti, ricollocando la questione palestinese al centro delle dinamiche mediorientali e di tutto il mondo arabo, dopo la sostanziale marginalizzazione di fatto avvenuta negli ultimi anni.

Quali gli sviluppi possibili del conflitto in corso?

Cosa accadrà (e cosa sta già accadendo)? Gli israeliani cercheranno di decapitare la leadership di Hamas. E se questo non bastasse (e non basterà) per indurre Hamas a cessare il lancio di razzi e ad avviare negoziati per liberare gli ostaggi, allora potremmo assistere a un’invasione israeliana su vasta scala di Gaza. Con ciò proponendo uno scenario simile a quello del 2005, quando Israele lasciò Gaza dopo averla occupata, con grande sforzo e oneri straordinari (intervista a Martin Indyk, per Foreign affairs del 7 ottobre 2023).

In questo caso, sul piano operativo si pone il problema della gestione di un conflitto in un’area ad alta densità di popolazione, dove la manovrabilità delle truppe di terra e il rischio di provocare un elevato numero di vittime potrebbe provocare una reazione di massa non solo da parte degli arabi a Gaza, ma anche dei profughi palestinesi nel vicino Libano e il molto probabile coinvolgimento di Hezbollah, anche questo sostenuto dall’Iran, e contemporanee rivolte violente in Cisgiordania e nella capitale Gerusalemme. Dunque un conflitto su più fronti, veramente difficile da sostenere, nonostante il massiccio e indiscusso supporto degli Stati Uniti.

E proprio per evitare il pantano di una guerriglia urbana è molto probabile che la prima fase della risposta di Gerusalemme possa svilupparsi attraverso l’impiego massiccio dell’aviazione e di droni per attacchi mirati, con l’obiettivo di indurre Hamas a desistere dall’offensiva intrapresa. Un’opzione operativa che potrebbe avere qualche speranza di successo solo se i paesi arabi più influenti su Hamas (Arabia Saudita, Qatar, Egitto) riuscissero attraverso un’azione diplomatica ad incidere sul gruppo palestinese. È una possibilità, ma la probabilità che ciò avvenga è molto limitata.

Al contrario, almeno nelle intenzioni di Hamas, è l’escalation di violenza il risultato fortemente voluto e ricercato dal gruppo. E questo perché è l’unica opzione per far rivoltare le opinioni pubbliche dei paesi arabi nei confronti delle rispettive leadership di governo (in particolare Arabia Saudita, l’Egitto, la Giordania, insieme a quelli che hanno aderito all’“accordo di Abramo” avviato dall’allora presidente statunitense Donald J. Trump), perché l’obiettivo strategico di Hamas è quello di cancellare Israele dalla faccia della terra.

Insomma, l’unica carta vincente di Hamas (a dispetto delle esigenze e delle priorità dei palestinesi di Gaza), è l’intensificazione e l’allargamento del conflitto che coinvolga quanti più attori possibili, così da ottenere la sconfitta e la distruzione di Israele, l’unica democrazia liberale in tutto il Medioriente.


Competizione NATO e Cina-Russia nel Mar del Giappone

di Andrea Molle

La reazione sino-russa alla diplomazia NATO nell’indo-pacifico, che include anche i recenti sforzi italiani, non si fa attendere. Dopo la conferma delle indiscrezioni di una futura apertura di un liaison office dell’Alleanza in Giappone, ipotesi peraltro volutamente omessa dalle dichiarazioni ufficiali dell’incontro di Vilnius, i due paesi annunciano un’esercitazione navale comune nel Mar del Giappone.

Il Mar del Giappone è un fondamentale teatro strategico sia per la Cina che per la Russia. In particolare gli stretti di Soya, di Tsushima e Tsugaru hanno importanti implicazioni per la sicurezza nazionale di Beijin e Mosca. Sabato, il Ministro della Difesa cinese ha dichiarato che forze navali e aeree russe prenderanno parte alle esercitazioni militari “Northern/Interaction”, organizzate dal comando del teatro settentrionale dell’Esercito Popolare di Liberazione (PLA). Va precisato che le relazioni militari tra i due paesi non sono una novità; basti ricordare, ad esempio, che a partire dal 2018, la Cina ha partecipato regolarmente alle principali esercitazioni annuali russe tra cui “Vostok 2018”, “Tsentr-2019” e “Kavkaz-2020”. Nell’agosto 2021, la Russia ha anche preso parte all’esercitazione “Western/Interaction”, condotta nella regione autonoma dello Ningxia Hui, nella Cina nord-occidentale, la prima in cui la Cina ha invitato a partecipare forze armate straniere. Successivamente, nel 2022, Beijin ha inviato componenti delle sue forze terrestri, navali e aeree in Russia per partecipare alle esercitazioni “Vostok 2022” le cui attività si sono svolte in ben 13 siti addestrativi russi e in diverse aree di interesse del Mar del Giappone.

Tuttavia, quest’ultima campagna addestrativa comune, che si aggiunge all’attività di pattugliamento congiunto del Mar del Giappone e del Mar Cinese Orientale da parte delle due Forze Armate iniziata lo scorso giugno, sembra rappresentare un salto di qualità verso un vero e proprio partenariato strategico. Il Ministero della Difesa ha infatti sottolineato come questa esercitazione congiunta abbia sì uno scopo prettamente operativo, cioè di acquisire le capacità necessarie al mantenimento della sicurezza delle rotte marittime strategiche, ma ha anche aggiunto che, tramite lo sviluppo di più strette relazioni militari, Cina e Russia intendono affermarsi politicamente come i reali garanti della pace e della stabilità nella regione.

Diversi esperti militari prevedono anche che queste attività addestrative andranno ad aumentare in futuro, anche grazie alla probabile rotazione tra tutti e cinque i comandi del PLA che potranno interessare diversi teatri strategici e scenari di conflitto tra i quali naturalmente spicca l’isola di Taiwan.

Ancora non si conosce l’entità nè la configurazione del contingente navale russo, ma la componente navale cinese sembra includere i cacciatorpedinieri missilistici Qiqihar e Guiyang, le fregate missilistiche Zaozhuang e Rizhao e la nave da rifornimento Taihu, salpate dal porto di Qingdao, sito nella provincia dello Shandong nella Cina orientale.

Fotografia di Michael Afonso


Controffensiva ucraina: conviene a Kiev? Il fattore tempo è a favore di Mosca. Il commento di C. Bertolotti a RadioInBlu

Il commento del direttore Claudio Bertolotti a Radio inBlu2000 (LINK all’intervista), ospite di Chiara Piacenti (puntata del 10 maggio 2023).

Il commento del direttore Claudio Bertolotti a Radio inBlu2000, ospite di Chiara Piacenti (puntata del 10 maggio 2023).

Controffensiva ucraina: cosa possiamo aspettarci? Quale il miglior risultato ottenibile per Kiev?

Intesa come controffensiva in grado di ricacciare indietro i russi imponendo l’abbandono del fronte, quella ucraina rimane un miraggio perché il potenziale militare ucraino è adeguato per una guerra difensiva, tuttalpiù per azioni offensive limitate, contrattacchi, ma difficilmente potrebbe sostenere un’azione in profondità su tutto il fronte. E questo perché una controffensiva risolutiva richiede un numero di carri armati, pezzi di artiglieria e potere aereo che, in questo momento l’Ucraina non ha.

In secondo luogo dobbiamo chiederci se all’Ucraina convenga avviare un’azione offensiva che sarebbe molto onerosa in termini di risorse materiali e umane: ricordiamo che chi attacca deve mettere in campo almeno il triplo delle risorse schierate da chi invece si difende. Quel che è certo è che se una controffensiva ucraina dovesse essere condotta questa avverrà prima realizzando un piano d’inganno, ossia un attacco simulato per distrarre le difese russe, e contemporaneamente concentrando un attacco massiccio in un preciso punto del fronte, su più direttrici d’attacco, senza disperdere le forze già molto limitate. Ma è difficile riuscire a immaginare che una tale situazione possa poi essere gestita dalle forze ucraine che ancora non hanno una capacità militare tale da riuscire a contenere la scontata azione controffensiva russa.

Il fattore tempo gioca a favore di Russia o Ucraina?

Il fattore tempo gioca a favore di chi ha il maggior numero di pedine da mettere in campo e un sistema produttivo in grado di sostenerlo. L’Ucraina ha la possibilità di sostenere lo sforzo militare grazie quasi esclusivamente al sostegno statunitense, a cui si unisce quello inferiore ma non marginale dei paesi dell’Unione europea. Ma è un sostegno a termine, che difficilmente potrà essere garantito sul lungo periodo vista la crescente diffidenza di un Congresso statunitense che chiede conto dei soldi dei contribuenti spesi in una guerra che dura ormai da troppo tempo.

Al contrario, la Russia ha uomini e materiali, associati a un sistema produttivo e militare sostanzialmente intaccato. È indubbio che sia Mosca a mantenere una posizione di primazia sul campo, se non altro in termini di quantità di risorse sacrificabili

Cosa rappresenta Bakhmut?

È un simbolo per entrambi i contendenti ed è, al contempo, strategicamente importante sia tenerla sia occuparla perché è un obiettivo che diverrà il perno di manovra di possibili azioni offensive russe. Per questo motivo Kiev si ostina a mantenere la posizione. Ora lo stallo è totale, ma si apre la prospettiva di un’offensiva russa o contrattacchi ucraini. Bakhmut rientra tra gli emblemi russi, perché una vittoria darebbe un’ulteriore spinta alla sua narrazione, oltre ad avere effetti significativi sul piano militare. I russi avrebbero una grande capacità di manovra e la conquista gli consentirebbe di consolidare la linea del fronte, offrendogli un vantaggio tattico e operativo nell’area. Sul fronte opposto, la tenuta di Bakmut garantisce all’Ucraina l’accesso di vie di comunicazione e logistiche, stradali e ferroviarie necessarie a sostenere lo sforzo militare al fronte. Perdere la città, aspetto che Kiev ha di fatto già accettato, ha imposto una riorganizzazione del retrofronte in relazione a un abbandono delle posizioni strenuamente tenute in questi mesi.

Un 9 maggio sotto tono in Russia, droni sul Cremlino, attentati, effetto Prigozhin… Una Russia meno solida?

Direi una Russia sospesa e rassegnata a condurre una guerra di logoramento nel lungo periodo e con una leadership presidenziale ben salda al potere, forte della capacità di propaganda con cui riesce a consolidare il sostegno, o comunque la mancata opposizione dell’opinione pubblica interna, alle decisioni governative.

La leadership sa che il costo di questa guerra è immensamente più grande rispetto alla peggiore delle previsioni che il governo russo valutò prima di dare il via alla cosiddetta “operazione militare speciale”. Ciò nonostante non ha alternative: la guerra continuerà ancora fino a quando non verrà dichiarata una qualche forma di vittoria. Non importa se vera o no, quel che possiamo valutare è che la forma e il metodo con cui questa vittoria verrà annunciata sarà in grado di far accettare l’esito all’opinione pubblica interna. In questo quadro si conferma come pienamente efficace l’azione di propaganda e controllo dell’informazione in Russia.

Quale il ruolo della Cina?

La Cina potrebbe imporsi come interlocutore primario dal punto di vista pragmatico perché ha la capacità di influenzare le decisioni russe anche in termini di supporto indiretto alla guerra stessa. In questo caso sarà necessario capire quanto gli Stati Uniti saranno disposti a concedere alla Cina e sebbene la Russia sia in questo momento in cima alle preoccupazioni delle Cancellerie occidentali, l’attore primario è la Cina. E il confronto non è tra Russia e Stati Uniti o tra Russia e Nato, ma tra Stati Uniti e Cina. Credo si debba guardare alla guerra in Ucraina in prospettiva cercando di trovare alcune dinamiche comuni in quello che potrebbe essere il dossier Taiwan nel prossimo futuro.


Vent’anni fa la guerra in Iraq. L’anniversario scomodo di una guerra dalle conseguenze irreversibili per l’ordine internazionale

di Claudio Bertolotti

dall’intervista di Alessia Virdis per ADNKRONOS

20 anni dall’invasione dell’Iraq: è un anniversario scomodo per l’Occidente e, se sì, perché?

La guerra in Iraq è una delle guerre più controverse e disastrose degli ultimi decenni; una guerra in cui gli effetti negativi hanno superato di gran lunga qualsiasi possibile risultato positivo.

Parte dell’opinione pubblica di allora ha oggi allontanato le emozioni e i sentimenti provati e vissuti vent’anni fa in occasione della guerra in Iraq che seguì, di poco, quella maggiormente coinvolgente in Afghanistan. Un’altra parte dell’attuale opinione pubblica, per ragioni generazionali, non ha vissuto quei momenti e colloca l’evento in un momento storico privato della sua componente emotiva. Detto questo, credo che la risposta sia: “sì, l’anniversario dell’invasione dell’Iraq del 20 marzo 2003 è scomodo per l’Occidente, e lo è per diverse ragioni”.

La prima di queste ragioni è la consapevolezza di una ricercata manipolazione dell’opinione pubblica volta a convincerla della necessità e della bontà dell’intervento militare: ricordiamo tutti l’imbarazzo del segretario di Stato Colin Powel davanti al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite mostrare una provetta contenente borotalco, asserendo si trattasse di antrace per giustificare l’emergenza di un intervento militare Guerra basata su informazioni sbagliate. L’invio delle truppe statunitensi in Iraq si basava principalmente su informazioni errate o addirittura inventate sulle armi di distruzione di massa (WMD) possedute dal regime di Saddam Hussein. Quando si scoprì che queste informazioni erano false, molti accusarono l’amministrazione Bush di aver manipolato l’opinione pubblica per giustificare la guerra.

Un’altra ragione sono i costi della guerra. L’invasione dell’Iraq ha comportato un costo enorme in termini di vite umane e risorse finanziarie. Secondo alcune stime, la guerra ha causato la morte di oltre 100.000 civili iracheni e più di 4.400 militari americani, oltre a un costo stimato di 1,7 trilioni di dollari.

Una terza ragione è l’avvio di un periodo (ancora in corso) di instabilità regionale. L’invasione dell’Iraq ha destabilizzato l’intera regione del Medio Oriente, creando un vuoto di potere che ha permesso la nascita di gruppi estremisti come lo Stato islamico (ISIS) Creando al contempo tensioni tra i paesi dell’Occidente e quelli musulmani, alimentando il sentimento anti-occidentale in molte parti del mondo.

Una quarta ragione, infine, è data dai dubbi sulla legittimità dell’azione militare. La guerra in Iraq ha diviso l’opinione pubblica sia negli Stati Uniti che in Europa. L’assenza di un mandato del Consiglio di sicurezza dell’ONU e la mancanza di una minaccia imminente alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti hanno portato molti a chiedere il perché dell’avvio della guerra.

E ancora oggi, per fortuna, la guerra in Iraq continua a suscitare dibattiti sul ruolo degli Stati Uniti nel mondo e sulla giustificazione delle azioni militari unilaterali.

Le conseguenze della guerra in Iraq continuano ad avere ripercussioni sul Medioriente?

La guerra in Iraq, iniziata vent’anni fa, è un punto di rottura sul piano delle relazioni internazionali e una svolta su quello degli equilibri geopolitici a livello regionale e globale. Un fatto storico che ha determinato l’impossibilità di ritorno all’ordine internazionale precedente, come quello della Guerra Fredda o del primo periodo post-Guerra Fredda.

Parliamo di cambiamenti irreversibili tanto da determinare ancora oggi i ritmi della politica regionale e le scelte in campo internazionale in cui giocano ora tre attori determinanti: Stati Uniti, Russia e Cina che determinano e sono condizionati dalla conflittualità competitiva tra  Arabia Saudita e Iran e dalle dinamiche di allineamento degli altri attori minori che , a cui altri attori sono obbligati ad adattarsi; e nelle sue istituzioni regionali, che mostrano tutti marcati cambiamenti e nuovi orientamenti. Al contempo non dobbiamo dimenticare il ruolo di influenza, non marginale, che la guerra in Iraq ha avuto sui fenomeni rivoluzionari e insurrezionali delle cosiddette Primavere arabe che si sarebbero sviluppati dopo pochi anni.

L’invasione dell’Iraq ha rappresentato un punto di rottura nell’ordine internazionale e ha portato a rapidi cambiamenti negli equilibri di potere regionali, che hanno costretto alla diversificazione delle alleanze e dei quadri istituzionali. Ciò è stato dimostrato dagli eventi più recenti, come la dipendenza dalla Cina e dalla Russia per le forniture di vaccini durante la pandemia di COVID-19 e l’emergere di nuove relazioni internazionali, come quella tra Iran e Russia e quella tra gli stati arabi e Israele riflessa negli accordi di Abramo del 2020. La guerra in Ucraina ha dimostrato come gli stati arabi filo-occidentali si siano astenuti dal criticare l’invasione russa, mentre altri stati si sono avvicinati a Mosca.

Qual è oggi la situazione dell’Iraq, sia a livello politico che di sicurezza?

L’Iraq è un paese in difficoltà, ma ci sono anche segnali di progresso. La situazione politica e di sicurezza rimane instabile, ma ci sono sforzi in corso per migliorare la situazione.

L’instabilità politica e di sicurezza evidenzia il permanere di numerosi problemi da affrontare e risolvere. Sul piano politico, il paese ha affrontato numerose crisi, compresa la recente crisi costituzionale del 2019-2020, caratterizzata da proteste popolari e dimissioni di funzionari governativi. Inoltre, la situazione è complicata dalla divisione tra le fazioni politiche e le tensioni etniche e religiose.

Dal punto di vista della sicurezza, l’Iraq si trova ancora sotto la minaccia del terrorismo e delle milizie armate. Sebbene lo Stato Islamico sia stato sconfitto in gran parte del paese, ancora perpetrano attacchi terroristici. Inoltre, le milizie armate filo-iraniane ancora presenti, rappresentano una minaccia per la stabilità del paese.

L’Iraq ha anche affrontato una serie di sfide economiche e sociali, inclusa la carenza di servizi essenziali, la disoccupazione e la corruzione. Tuttavia, il paese ha anche fatto progressi in alcuni settori, come l’energia, e sta cercando di attirare investimenti stranieri per stimolare la crescita economica.

In tale contesto non dobbiamo sottovalutare l’assertività di tre importanti attori: Russia, Cina e Iran, che cercando di aumentare la loro influenza in Iraq attraverso diverse azioni.

In primo luogo, la Russia sta cercando di espandere la sua presenza economica in Iraq, soprattutto nel settore energetico. Mosca ha stretto accordi con il governo iracheno per l’estrazione di petrolio e gas, e ha fornito assistenza militare sotto forma di armi e consiglieri militari.

Anche la Cina sta cercando di espandere la propria influenza economica e commerciale, offrendo investimenti e assistenza tecnica in diversi settori. Pechino ha inoltre stretto accordi energetici con l’Iraq, e ha recentemente firmato un accordo per costruire una linea ferroviaria ad alta velocità tra Baghdad e Basra.

L’Iran, invece, ha mantenuto una forte presenza politica, economica e militare, e ha sostenuto attivamente il governo iracheno nella lotta contro l’ISIS poi evoluto nel fenomeno “Stato islamico” dal 2014. Teheran ha inoltre stretto accordi commerciali e di sicurezza con il governo iracheno, e ha supportato diverse milizie sciite in Iraq.

In generale, i tre paesi cercano di aumentare la loro influenza nel paese attraverso investimenti, aiuti economici e militari, e accordi commerciali. Tuttavia, la presenza e l’influenza degli Stati Uniti in Iraq rimane forte, e gli sforzi di Russia, Cina e Iran potrebbero essere ostacolati da una crescente opposizione irachena alle ingerenze straniere.

Timeline della guerra in Iraq (CNN)

CNN (original article) — Here’s a look at the Iraq War which was known as Operation Iraqi Freedom until September 2010, when it was renamed Operation New Dawn. In December 2011, the last US troops in Iraq crossed the border into Kuwait, marking the end of the almost-nine year war.

October 16, 2002 – US President George W. Bush signs a congressional resolution authorizing him to go to war if Iraqi President Saddam Hussein refuses to give up weapons of mass destruction in compliance with United Nations Security Council resolutions.

November 8, 2002 – The UN Security Council adopts Resolution 1441, giving Iraq a final chance to comply with its “disarmament obligations” and outlining strict new weapons inspections with the goal of completing the disarmament process. The resolution threatens “serious consequences” as a result of Iraq’s “continued violations of its obligations.”

February 5, 2003 – US Secretary of State Colin Powell makes the case to the UN that Hussein poses an imminent threat.

February 14, 2003 – UN Chief Weapons Inspector Hans Blix reports to the UN Security Council that his team has found no weapons of mass destruction in Iraq.

March 17, 2003 – Bush issues an ultimatum to Hussein and his family – leave Iraq within 48 hours or face military action.

March 19, 2003 – Bush announces US and coalition forces have begun military action against Iraq.

March 20, 2003 – Hussein speaks on Iraqi TV, calling the coalition’s attacks “shameful crimes against Iraq and humanity.”

April 9, 2003 – Coalition forces take Baghdad. A large statue of Hussein is toppled in Firdos Square. The White House declares “the regime is gone.”

April 13, 2003 – Seven US prisoners of war are rescued by US troops.

May 1, 2003 – Speaking on the USS Abraham Lincoln, Bush declares “major combat operations” over, although some fighting continues.

May 22, 2003 – The UN Security Council approves a resolution acknowledging the US and Great Britain’s right to occupy Iraq.

July 22, 2003 – Hussein’s sons, Uday and Qusay, are killed by US forces.

December 13, 2003 – Hussein is captured in Tikrit.

June 28, 2004 – The handover of sovereignty to the interim Iraqi government takes place two days before the June 30 deadline previously announced by the US-led coalition.

June 30, 2004 – The coalition turns over legal control of Hussein and 11 other former top Iraqi officials to the interim Iraqi government. The United States retains physical custody of the men.

July 1, 2004 – Hussein makes his first appearance in court. He is charged with a variety of crimes, including the invasion of Kuwait and the gassing of the Kurds.

September 6, 2004 – The number of US troops killed in Iraq reaches 1,000.

November 2004 – US and Iraqi forces battle insurgents in Falluja. About 2,000 insurgents are killed. On November 14, Falluja is declared to be liberated.

October 25, 2005 – The number of US troops killed in Iraq reaches 2,000.

November 19, 2005 – At least 24 Iraqi civilians, including women and children, are killed in Haditha. Eight US Marines faced charges in the deaths, but only one was convicted of a crime, that of negligent dereliction of duty.

November 5, 2006 – The Iraqi High Tribunal reaches a verdict in the 1982 Dujail massacre case. Hussein is found guilty and sentenced to death by hanging, pending appeal.

December 30, 2006 – Hussein is hanged.

December 30, 2006 – The number of US troops killed in Iraq reaches 3,000.

January 10, 2007 – A troop surge begins, eventually increasing US troop levels to more than 150,000.

September 3, 2007 – Basra is turned over to local authorities after British troops withdraw from their last military base in Iraq to an airport outside the city.

March 22, 2008 – The number of US troops killed in Iraq reaches 4,000.

July 16, 2008 – The surge officially ends, and troop levels are reduced.

December 4, 2008 – The Iraqi Presidential Council approves a security agreement that paves the way for the United States to withdraw completely from Iraq by 2011.

January 1, 2009 – The US military hands over control of Baghdad’s Green Zone to Iraqi authorities.

February 27, 2009 – US President Barack Obama announces a date for the end of US combat operations in Iraq: August 31, 2010.

June 30, 2009 – US troops pull back from Iraqi cities and towns and Iraqi troops take over responsibility for security operations.

August 19, 2010 – The last US combat brigade leaves Iraq. A total of 52,000 US troops remain in the country.

September 1, 2010 – Operation Iraqi Freedom is renamed Operation New Dawn to reflect the reduced role US troops will play in securing the country.

May 22, 2011 – The last British military forces in Iraq, 81 Royal Navy sailors patrolling in the Persian Gulf, withdraw from the country. A total of 179 British troops died during the country’s eight-year mission in Iraq.

October 17, 2011 – A senior US military official tells CNN that the United States and Iraq have been unable to come to an agreement regarding legal immunity for US troops who would remain in Iraq after the end of the year, effectively ending discussion of maintaining an American force presence after the end of 2011.

October 21, 2011 – Obama announces that virtually all US troops will come home from Iraq by the end of the year. According to a US official, about 150 of the 39,000 troops currently in Iraq will remain to assist in arms sales. The rest will be out of Iraq by December 31.

December 15, 2011 – American troops lower the flag of command that flies over Baghdad, officially ending the US military mission in Iraq.

December 18, 2011 – The last US troops in Iraq cross the border into Kuwait.


Dallo stallo ai due possibili schemi di manovra offensiva russa.

Analisi del primo anno di guerra e la prospettiva della Storia militare

di Fabio Riggi, Analista indipendente.

Abstract (Italian)

Dopo un ciclo operativo sostanzialmente favorevole ai russi, che si era concretizzato nel periodo maggio-luglio 2022 (battaglia del Donbas), con la conquista da parte delle forze di Mosca della città portuale di Mariupol (con la quale la Russia si è assicurata il controllo di tutta la costa settentrionale del Mar d’Azov) Severodonetsk e Lysichansk, l’offensiva di Mosca ha raggiunto il suo punto culmine. Le operazioni terrestri in Ucraina, e più in generale l’intero andamento del conflitto, avrebbero ormai assunto il carattere di una lotta basata sull’attrito, molto più che sulla manovra. Una vera “Materialschlacht”, ossia una “battaglia di materiali”, come questa veniva definita dalla classica terminologia militare tedesca, dove la forza del numero e dell’acciaio hanno un ruolo preminente.

Key Takeaways:

  • La capacità offensiva russa ha raggiunto il culmine (maggio-luglio);
  • Il momentum ucraino: la svolta grazie al sistema HIMARS (agosto-novembre);
  • L’esaurimento ucraino e la ripresa russa alla fine del 2022;
  • L’attesa dell’offensiva russa: la manovra dei 300.000 prima della “Rasputitsa”;
  • La guerra di manovra della Nato: dalla “difesa attiva” alla dottrina Air-Land Battle;
  • Gli insegnamenti della Storia militare per comprendere la “manovra” russa;
  • La prima lezione appresa: campo di battaglia trasparente e importanza del livello tattico;
  • Due futuri possibili schemi di manovra russa;
  • La prevalenza dell’attrito sulla manovra.

Keywords: manovra, momentum, air-land battle,Russia, Ukraine

La capacità offensiva russa ha raggiunto il culmine (maggio-luglio)

La guerra in Ucraina è entrata nel suo primo anno, e oltre ad alcune annotazioni relative all’andamento attuale delle operazioni è oggi possibile formulare considerazioni e ipotesi di carattere generale, frutto delle informazioni e del materiale attualmente disponibili. Ciò con la pur sempre doverosa avvertenza che praticamente nulla può ancora essere ritenuto consolidato e definitivo, nella considerazione che l’oggetto di studio è un conflitto ancora in pieno svolgimento e dall’esito incerto.

Dopo un ciclo operativo sostanzialmente favorevole ai russi, che si era concretizzato nel periodo maggio-luglio 2022 (battaglia del Donbas), con la conquista da parte delle forze di Mosca della città portuale di Mariupol (con la quale la Russia si è assicurata il controllo di tutta la costa settentrionale del Mar d’Azov) Severodonetsk e Lysichansk, l’offensiva di Mosca ha raggiunto il suo punto culmine. A proposito di quest’ultima definizione, giova ricordare come essa sia dottrinalmente definita come il momento di un’operazione in cui le capacità operative di chi la conduce non consentono più l’assolvimento della missione, o nel caso specifico di un’offensiva, quando quella dell’attaccante tende a equivalersi con quella del difensore, andando a rallentare, fino ad arrestarla, la sua progressione. A causa di ciò, le forze russe non sono riuscite nemmeno a intaccare la successiva linea fortificata ucraina della regione del Donbas, quella corrispondente all’allineamento Sloviansk-Kramatorsk.

Il momentum ucraino: la svolta grazie al sistema HIMARS (agosto-novembre)

In seguito, nel prosieguo delle settimane estive, si è assistito a un sostanziale stallo delle operazioni, situazione caratterizzata però da una crescente intensità delle azioni di fuoco di interdizione in profondità condotte dall’artiglieria ucraina. Queste si sono svolte in particolare grazie alle forniture di uno specifico sistema: il lanciarazzi multiplo statunitense HIMARS (High Mobility Artillery Rocket System), che con le sue munizioni guidate (razzi M-30/M-31 con gittata di 70 Km) ha rappresentato un “fattore” nel colpire tutta una serie di obiettivi nella “zona arretrata” delle forze russe. Anche grazie all’efficacia di queste attività, dalla fine di agosto si è materializzata una massiccia controffensiva ucraina, sviluppatasi dapprima contro la testa di ponte di Kherson, nel settore meridionale, poi, a partire dal 6 settembre, in quello orientale, a sud di Kharkiv. L’attacco su Kherson, condotto con ingenti forze e su tre direttrici, ha subito incontrato una forte resistenza e nonostante alcuni progressi iniziali è stato in seguito sostanzialmente contenuto da un dispositivo difensivo predisposto in precedenza e articolato in profondità su tre linee difensive. Le operazioni ucraine nel quadrante est, al contrario, hanno avuto subito un travolgente successo, che nel volgere di poche settimane ha costretto le forze russe ad abbandonare non solo le importanti posizioni di Kupiansk, Izium e Lyman, ma anche a ripiegare dall’intero oblast di Kharkiv.

Nel prosieguo delle settimane autunnali l’iniziativa è rimasta saldamente nelle mani delle forze di Kiev, che ad est, dopo aver attraversato il fiume Oskil, hanno continuato a spingere verso la linea Svatove-Kremmina. A sud gli ucraini hanno mantenuto una costante pressione sulla testa di ponte di Kherson, spingendo alla fine i russi ad abbandonarla – ripiegamento condotto peraltro in buon ordine e riducendo al minimo le perdite – completandone l’evacuazione entro l’11 novembre per attestarsi sulla riva sinistra del Dnepr, dove hanno proseguito i lavori di rafforzamento delle posizioni difensive. In seguito però l’intensità e il ritmo delle operazioni offensive ucraine sono venuti meno, e in poco tempo il loro “momentum” è scemato fino a spegnersi del tutto; quest’ultimo concetto, in particolare, è un preciso parametro operativo definito oggi dottrinalmente come la combinazione tra la velocità di progressione di un’offensiva e il mantenimento dell’iniziativa. A tale riguardo, comunque, altri autori classici nello studio dell’arte militare contemporanea avevano in precedenza coniato diverse definizioni del concetto di momentum, come ha fatto il brigadiere Richard E. Simpkin, un ufficiale dell’esercito britannico, nel suo libro pubblicato negli anni ’80 dello scorso secolo, “Race to the Swift”, il quale lo ha descritto come il prodotto di velocità, massa di forze impegnate e risultante celerità con la quale viene assolta una missione assegnata. Si tratta di una teoria che, ripresa e ampliata da un altro ufficiale, lo statunitense Robert Leonhard nel suo “The art of Maneuver”, applica alle operazioni militari terrestri (specie quelle offensive) termini e definizioni mutuati da quella branca della fisica che è la meccanica, associando in qualche modo lo studio dei movimenti e delle azioni degli eserciti a quello dei corpi materiali. In questo modo, dopo questi studi ci si è azzardati a parlare della teorizzazione di una sorta di “phisics of war”. Accade così, ad esempio, che una formazione lanciata all’attacco vede quello che è tradizionalmente chiamato “impeto” assimilato al concetto fisico di inerzia.

L’esaurimento ucraino e la ripresa russa alla fine del 2022

All’inizio di dicembre gli sforzi ucraini volti a scardinare la linea Svatove-Kremmina, a est del fiume Oskil, dove la difesa russa si era alla fine irrigidita dopo una serie di ripiegamenti, non hanno avuto esito e i tentativi di riconquistare queste due stesse località sono gradualmente stati fermati. Nello stesso mese, quasi con la stessa gradualità, l’iniziativa in quasi tutti i settori è nuovamente passata dalla parte russa, dapprima con una serie di contrattacchi volti ad arrestare definitivamente l’azione avversaria, poi con operazioni sempre più autonome e ad ampio respiro. Come noto, l’epicentro della lotta si è concentrato nel settore di Bakhmut, insediamento situato 30 Km a sud-est di Kramatorsk. A proposito di quest’ultima località, dove una violenta e sanguinosa battaglia è in corso da quasi due mesi, inizialmente diversi commentatori si sono affrettati a definirla “priva di significato” e di valore “puramente simbolico”. In realtà, con un’analisi più approfondita dal punto di vista tattico, si può rilevare come si tratti di un centro urbano di non trascurabili dimensioni, e come tale rappresenta un ostacolo per l’attaccante e specularmente un’opportunità per il difensore, caratteristiche che lo rendono intrinsecamente importante. Inoltre, Bakhmut si trova in posizione baricentrica rispetto a un sistema di strade che si diramano verso tutte le direzioni, la principale delle quali è l’autostrada M-03, che puntando a nord-ovest, passando per Sloviansk, collega la regione del Donbas con il resto dell’Ucraina e la capitale Kiev. La conquista di Bakhmut consentirebbe dunque ai russi di assumere il controllo di un importante snodo di comunicazioni, e di quello che rappresenta il bastione e l’ancoraggio meridionale della linea difensiva fortificata Sloviansk-Kramatorsk. Pertanto, con Bakhmut le forze russe potrebbero disporre di una valida base di partenza per approcciare questa linea difensiva da sud-est. Alla luce di ciò, si può comprendere dunque bene il perché, a loro volta, le unità ucraine stiano conducendo una tenacissima battaglia difensiva per scongiurare questa eventualità. In effetti, anche la caparbia difesa di Severodonetsk, la scorsa estate, pur essendosi conclusa alla fine con la ritirata dalla città, potrebbe aver inflitto agli attaccanti un attrito tale da rendere impossibile la prosecuzione di ulteriori operazioni verso ovest.

L’attesa dell’offensiva russa: la manovra dei 300.000 prima della “Rasputitsa”

Al di là di quella che è la sommaria descrizione degli ultimi sviluppi operativi del conflitto, dopo mesi di guerra alcuni importanti risvolti di carattere generale stanno emergendo e, soprattutto, stanno facendo scaturire interrogativi che sono al momento oggetto di discussione sulle fonti più autorevoli e qualificate nel campo degli studi strategico-militari. I mass media si sono concentrati nelle ultime settimane sulla “grande offensiva” russa, che starebbe per abbattersi sulle forze ucraine con i nuovi rinforzi giunti sul fronte grazie alla mobilitazione iniziata lo scorso settembre. Di certo, se l’apparato militare di Mosca riuscirà a trasformare in effettivo potenziale di combattimento i 300.000 uomini mobilitati (secondo alcune fonti sarebbero in realtà quasi 500.000), questo potrebbe avere un impatto decisivo a suo favore. A tale riguardo, probabilmente, è stato proprio l’arrivo delle prime aliquote di personale richiamato con questo provvedimento a consentire ai comandi russi di stabilizzare la difficile situazione venutasi a creare in autunno e poi riguadagnare l’iniziativa in tutti i settori del fronte. In caso contrario, sarà molto difficile, se non impossibile, per la Russia poter sperare di raggiungere i propri obiettivi nel conflitto, anche nel medio-lungo termine.

Secondo vari commentatori, non senza qualche ragione, questa grande offensiva di Mosca sarebbe già virtualmente iniziata, quantomeno nelle sue fasi preliminari, pur tenendo conto del fatto che tra non molto, almeno teoricamente, il sopraggiungere della stagione primaverile e della conseguente “Rasputitsa” farà riapparire il fango provocato dal disgelo, il quale tornerà nuovamente a ostacolare le operazioni, in particolare quelle delle forze mobili. Vi sono anche diverse ipotesi riguardo alle possibili direttrici d’attacco principali, il concetto di operazione, e gli obiettivi finali.

Tuttavia, non è detto che questi sforzi offensivi possano sfociare in una fase “manovrata” vera e propria. In verità, proprio questo è un aspetto che merita un particolare ragionamento e, in qualche modo, un certo sforzo di contestualizzazione. Occorre infatti notare che, soprattutto in occidente, ci si è abituati, in particolare dalla seconda guerra mondiale in poi, a vedere operazioni terrestri nelle quali la manovra – definita come il movimento di forze e concentramento del fuoco finalizzate ad acquisire una posizione di relativo vantaggio sull’avversario ai fini del conseguimento dell’obiettivo – ha molto spesso, se non quasi sempre, avuto un ruolo rilevante e decisivo. Dalla “primavera di vittorie” del 1940, con la quale la “blitzkrieg” condotta dalla Wehrmacht schiacciò la Francia e il corpo di spedizione britannico che aveva preso parte alla sua difesa, alle “corse” della Terza Armata americana del generale Patton in Europa Occidentale nel 1944, fino alle grandi offensive dell’Armata Rossa nelle fasi finali del conflitto, il secondo conflitto mondiale ha sancito come sia da attribuire la massima importanza alla guerra di manovra quale modalità decisiva per la vittoria. Anche nel secondo dopoguerra l’attenzione di militari e studiosi si è concentrata sugli altri significativi eventi bellici nei quali questa modalità di impiego delle forze terrestri si è rivelata determinante. Ciò è avvenuto in particolare riguardo le guerre che si sono svolte in Medio Oriente tra Israele e gli stati arabi (nel 1967 e nel 1973), dove proprio le fulminee operazioni offensive israeliane, condotte secondo i tipici dettami dell’approccio manovriero, furono decisive per l’esito finale di questi conflitti.

La guerra di manovra della Nato: dalla “difesa attiva” alla dottrina Air-Land Battle

In realtà, con particolare riferimento agli esempi citati, è sicuramente più corretto definire questa tipologia di operazioni come “aero-terrestri”, poiché è stato proprio il binomio forze corazzate-aviazione tattica la formula vincente, tanto nella Blitzkrieg tedesca delle fasi iniziali della seconda guerra mondiale, quanto nelle offensive condotte dalle forze armate di Israele nei vari conflitti che le videro contrapposte a quelle arabe. In particolare, all’indomani della guerra del Kippur del 1973, le “lezioni apprese” in campo dottrinale furono attentamente studiate in occidente, sulla base dell’esigenza della NATO di trovare una formula tattica per fronteggiare quelle che sarebbero state le forze del Patto di Varsavia, preponderanti dal punto di vista numerico, sul fronte centrale europeo. In questo caso, il problema si presentava pressoché identico a quello che gli israeliani dovettero risolvere durante il conflitto del 1973, in particolare sul fronte del Golan. A onor del vero, la dottrina tattica che scaturì da quella analisi, sancita dal Field Manual 100-5 del 1976 dell’esercito statunitense, prevedeva lo sviluppo di un sistematico e reiterato volume di fuoco da posizioni di combattimento preparate, con l’esecuzione di contrattacchi al solo fine di neutralizzare le eventuali penetrazioni avversarie nel dispositivo difensivo. Questo concetto operativo fu recepito dalla NATO con la cosiddetta “difesa attiva”, che effettivamente non poteva dirsi esattamente orientata sui canoni della guerra di manovra, quanto piuttosto sull’idea di imporre all’avversario (attaccante) un tasso di attrito tale da esaurirne il potenziale di combattimento e spezzarne così il “momentum”. Ma quasi subito la “difesa attiva” si attirò le critiche di chi la considerava troppo “statica” e sostanzialmente passiva, pertanto non idonea a ottenere una vittoria decisiva che gli immutabili principi dell’arte della guerra, frutto di millenni di esperienza bellica, hanno indicato come ottenibile solo con la salda acquisizione e il mantenimento dell’iniziativa e la conseguente condotta di operazioni offensive.

Non passò dunque molto tempo prima dell’affermarsi di un ulteriore e importante evoluzione dottrinale, quella che sancì l’affermazione della cosiddetta “Air-Land Battle”. Questa, con la sua enfasi posta sull’impiego di mezzi di erogazione del fuoco a lunga gittata – impieganti munizionamento guidato di precisione – e delle forze aerotattiche per colpire le retrovie e le unità in secondo scaglione dell’esercito sovietico (considerate il Centro di Gravità delle formazioni Sovietiche in attacco), poneva le premesse per indicare poi come imprescindibile la vigorosa ripresa dell’iniziativa e l’esecuzione di controffensive ad ampio raggio e in profondità con l’impiego delle forze mobili, sempre ampiamente supportate dal fuoco aereo. In buona sostanza, si trattò di un ritorno a pieno titolo della concezione occidentale delle operazioni terrestri sotto la forma della guerra di manovra. Questa è stata definita con precisione nel quadro del noto concetto di “approccio indiretto”, già teorizzato da illustri pensatori militari della prima metà del XX secolo, come il celebre ufficiale britannico B.H. Liddel Hart (passato alla storia come “il capitano che insegnò la guerra ai generali”), ma che a ben guardare affondava le sue lontanissime origini anche nell’opera di colui che fu probabilmente il primo vero teorico dell’arte bellica di cui abbiamo memoria: il cinese Sun Zu. L’approccio indiretto prescrive l’ottenimento della vittoria non (o meglio non principalmente) attraverso la distruzione fisica delle forze dell’avversario, bensì attraverso la sopraffazione della sua volontà e della sua tenuta morale per mezzo di astute e attente manovre volte a neutralizzarne, fino ad azzerarlo del tutto, la capacità e/o volontà di operare. Andando a recepire questi precetti senza tempo, oggi il corpus dottrinale occidentale e NATO definisce il potenziale di combattimento (“combat power”) di una forza militare come composto da tre componenti fondamentali: fisica, cognitiva e morale. Il cosiddetto approccio manovriero, che rappresenta uno dei cardini fondamentali della nostra concezione delle operazioni militari terrestri, preconizza la compromissione delle componenti cognitiva e morale (ossia quelle “immateriali” per definizione, rappresentate dai processi decisionali, dalle informazioni disponibili, dalla consapevolezza della situazione e dalla volontà di combattere) del potenziale di combattimento nemico attraverso operazioni offensive rapide e risolutive, e subito dopo, in modo “indiretto”, anche di quella fisica, che cadrebbe così come un frutto maturo nella mani  del vincitore.

Attualmente, nell’Alleanza Atlantica e in ambito nazionale, si è dunque giunti a ritenere la “manoeuver warfare“, e i suoi corollari quali il comando decentralizzato e il processo di apprendimento e adattamento, come la via migliore e la più efficace da perseguire: e questo per numerosi buoni motivi. Come dimostrato dalle esperienze belliche del passato, con la sua applicazione si può ragionevolmente sperare di vincere in modo rapido, e quindi “economico” in termini di materiali e, soprattutto, di vite umane. Non è un caso, infatti, se lo stesso Liddel Hart, memore ed egli stesso vittima del carnaio del primo conflitto mondiale (era rimasto ferito e debilitato permanentemente a seguito di un attacco condotto con l’uso di gas tossici), aveva elaborato le sue idee anche e soprattutto allo scopo di evitare il tragico ripetersi di una sanguinosa guerra di posizione come quella che aveva vissuto personalmente sul fronte occidentale nel 1914-18.

Gli insegnamenti della Storia militare per comprendere la “manovra” russa

Tuttavia, nella lunga e articolata storia dell’arte militare non è stato sempre così. Per lungo tempo vi è stata una differente scuola di pensiero strategico, riguardante invece la “guerra di usura” e il cosiddetto “approccio diretto”. Molti hanno visto nello stesso Clausewitz l’antesignano e uno dei massimi esponenti di questa posizione, esemplificata dal Vernichtungprinzip, contenuto nella fondamentale opera del celebre prussiano, il Vom Kriege, e in tale ottica questo termine è stato tradotto in “principio di annientamento”. A tal proposito, lo stesso Liddel Hart aveva mosso una critica al pensiero di Clausewitz definendolo come il “Mahdi della massa”.

La dicotomia (ma anche le relazioni) tra i concetti di “guerra di attrito” e “guerra di manovra”, e quelli rispettivamente correlati di “approccio diretto” e “approccio indiretto”, sono stati presi in esame e descritti compiutamente negli anni ‘80 dello scorso secolo proprio da Simpkin in “Race to the Swift”. In esso l’autore menziona anche un’interpretazione alternativa del Vernichtungprinzip clausewitziano, derivante dalla sua diversa traduzione in termini di “disarticolazione” o “disorganizzazione”, piuttosto che distruzione fisica del nemico, riconducendolo così ai canoni più aderenti alla teoria della manovra. Tra l’ultimo scorcio del XX e l’inizio del XXI secolo, effettivamente, questa è parsa conoscere la sua definitiva affermazione tra le sabbie del Medio Oriente, rispettivamente con le operazioni “Desert Storm”, del 1991, e “Iraqi Freedom” del 2003. Nel primo caso, le forze statunitensi hanno applicato con successo i dettami della Air Land Battle, risolvendo il conflitto con una fulminea e risolutiva offensiva terrestre passata alla storia come “la guerra delle 100 ore”. Nel secondo, un altrettanto rapida vittoria è stata ottenuta seguendo un concetto derivante da un ulteriore evoluzione in chiave contemporanea dell’approccio indiretto: quella denominata “Shock and Awe” (“colpisci e terrorizza”) e “Rapid Dominance”, in questo caso declinata a partire dai livelli strategico e operativo.

Nondimeno, secondo alcuni qualificati osservatori un anno di operazioni nel conflitto ucraino stanno mettendo, almeno in parte, in discussione la valenza e soprattutto l’effettiva applicabilità dell’approccio manovriero negli ambienti operativi contemporanei. Tra questi, il professor Anthony King, titolare della cattedra di studi militari dell’università di Warwick, in Inghilterra, ha sollevato il dibattito, a più riprese, e soprattutto in un articolo dal titolo “Is Manoeuvre Alive?” apparso sull’autorevole sito inglese “The Wavell Room”. Le obiezioni sollevate da King hanno avuto una replica da parte del maggiore dell’esercito britannico Steve Maguire, il quale in un altro articolo, pubblicato sullo stesso sito, “Yes Manoeuvre is Alive. Ukraine Prove it”, ha citato come esempio per supportare la sua tesi – secondo la quale le operazioni basate sulla manovra mantengono la loro piena validità – la vittoriosa controffensiva ucraina di Kharkiv. Questa è stata effettivamente condotta con rapide penetrazioni in profondità di forze mobili, compresi distaccamenti motorizzati leggeri (“Kraken Units”), i quali rinunciando scientemente alla protezione fornita da veicoli corazzati pesanti hanno operato sfruttando la grande mobilità assicurata da quelli ruotati leggeri. A tal proposito però, ora si può aggiungere come la fase manovrata della controffensiva ucraina di Kharkiv abbia avuto una durata limitata a non più di un mese, e dopo la riconquista di Lyman, avvenuta il 1° ottobre, il ripiegamento delle forze di Mosca ha assunto la forma di un frenaggio che progressivamente – forse in ossequio alla dottrina tattica difensiva russa, che privilegia la cosiddetta “manovra difensiva” rispetto alla difesa statica, privilegiando ogniqualvolta possibile lo “scambio” dello spazio al fine di guadagnare tempo e preservare le forze – ha finito per assorbire e smorzare l’impeto di quelle ucraine, fino al definitivo irrigidimento sulla linea Svatove-Kremmina.

I due fattori che condizioneranno gli sviluppi operativi: densità delle forze e natura del terreno

Alla luce di tutto ciò, i possibili sviluppi delle operazioni nel conflitto ucraino possono essere ipotizzati tenendo conto di questi importanti aspetti generali. Appaiono ormai chiari i diversi aspetti limitanti che producono un attrito significativo nei confronti di qualsiasi operazione offensiva manovrata. Innanzitutto, la “densità” delle forze contrapposte, che al momento non consentono a entrambi i contendenti il raggiungimento di un’adeguata superiorità sull’avversario, come invece pare essere avvenuto per gli ucraini a Kharkiv. Al momento, le forze di ambedue le parti in lotta stanno gravitando soprattutto nel quadrante orientale del Donbas, dove i due gruppi operativi russi che vi sono schierati, quello di “Voronezh” e quello di “Rostov”, allineano rispettivamente l’equivalente di 54 e 67 battaglioni, o gruppi tattici di livello battaglione, anche se appare sempre più chiaro l’abbandono da parte dei russi di questa articolazione tattica a favore di un ritorno alla tradizionale struttura reggimento/divisione. A essi, lungo i circa 250 km di fronte che vanno dal settore a sud-est di Kharkiv a quello subito a ovest di Donetsk, si contrappongono circa 30 brigate ucraine, inquadrate nei comandi operativi nord, est e sud, tra le quali figurano la maggior parte di quelle pesanti (meccanizzate e corazzate) disponibili.

Tenendo conto che nell’organico di queste ultime figurano mediamente quattro battaglioni di manovra, cui si aggiungono altri reparti di supporto al combattimento di artiglieria (per quanto riguarda questa fondamentale componente in misura quasi doppia rispetto agli standard occidentali), genio, controaerei e delle trasmissioni, ne consegue che, quantomeno dal punto di vista delle unità di manovra, al momento le forze russe non dispongono della superiorità necessaria per realizzare una vera “rottura” del fronte. Inoltre, le numerose unità ucraine (ivi comprese quelle della Viiska Terytorialnoi oborony (VTO) la difesa territoriale, e della Natsionalna hvardiia Ukrainy, la Guardia Nazionale, che coadiuvano con una certa efficacia le operazioni di quelle regolari) presidiano tutti i settori del lungo fronte con dispositivi difensivi fortemente organizzati e fortificati, negando così lo spazio di manovra necessario per la condotta di una qualsiasi operazione ad ampio raggio basata sulla penetrazione e sulla mobilità.

Anche l’effettiva superiorità delle artiglierie russe, pur imponendo quello che deve essere molto probabilmente un attrito non trascurabile ai difensori, viene in parte mitigato dalla protezione fornita dalle postazioni difensive e fortificazioni campali di cui possono usufruire questi ultimi. Nello stesso modo, la stessa “densità” delle unità ucraine per la difesa controaerei, in special modo quelle maggiormente mobili – e per questo relativamente meno vulnerabili alle missioni di Suppression Enemy Air Defences (SEAD) avversarie – rende ugualmente, al momento, troppo rischiosa anche la “manovra nella terza dimensione”, impedendo qualsiasi tentativo di “aggiramento verticale” condotto da forze aviotrasportate o aeromobili, e questo almeno fino a quando le prime potranno rimanere sufficientemente operative dal punto di vista del munizionamento (in primo luogo missilistico) e del mantenimento in efficienza dei sistemi d’arma.

Il secondo fattore che sembra stia rendendo estremamente difficoltoso, se non impossibile, l’esecuzione di operazioni manovrate in Ucraina è quello relativo al terreno, e in modo particolare l’importante presenza di numerosi e relativamente estesi centri abitati, soprattutto nella regione del Donbas. In effetti, proprio la sempre maggiore urbanizzazione di aree sempre più vaste del pianeta è uno dei principali temi sulla base dei quali il professor King ha basato la sua “provocazione” dialettica sulla presunta “morte” dell’approccio manovriero. Il conflitto ucraino sembrerebbe avvalorare questa tendenza, con tutta una serie di importanti battaglie, da quella di Mariupol, a quelle di Severodonetsk, Lysichansk e Bakhmut, che si sono svolte o sono in corso nei centri abitati. L’elevato ostacolo rappresentato da questo tipo di terreno rende particolarmente difficile lo sviluppo di rapide manovre offensive, un elemento che a ben guardare era stato già osservato nel precedente confronto del 2014-15. In quel caso, i prolungati scontri svoltisi per il possesso di aree urbane o infrastrutture quali l’aeroporto di Donetsk (dove i paracadutisti ucraini resistettero ostinatamente per non meno di sette mesi ai reiterati attacchi dei separatisti) o della cittadina di Debaltsevo, hanno spinto alcuni attenti osservatori, come il maggiore dell’esercito statunitense Amos C. Fox, nel suo studio specificamente dedicato alla battaglia di Debaltsevo dal titolo “Battle of Debal’tseve: the Conventional Line of Effort in Russia’s Hybrid War in Ukraine”, a parlare esplicitamente di un ritorno alla “guerra di assedio”.

La prima lezione appresa: campo di battaglia trasparente e importanza del livello tattico

Nel conflitto oggi in corso, dopo la prima fase altamente dinamica del febbraio-marzo 2022 caratterizzata dalle prime, effettivamente rapide, penetrazioni e puntate offensive delle forze russe, anche queste sono poi giunte al loro “punto culmine” anche e soprattutto per la presenza di tutta una serie di centri urbani che venivano sistematicamente aggirati, ma nei quali i difensori ucraini continuavano, seppur isolati, a resistere. Il terzo fattore che agisce contro la manovra in Ucraina è quella che è stata già riconosciuta come una delle prime fondamentali “lezioni apprese” di questo conflitto, ossia quella relativa al cosiddetto “campo di battaglia trasparente”. In essa viene riconosciuto come la massiccia e pervasiva presenza di tutta una vasta panoplia di assetti di Intelligence, Surveillance e Reconnaissance (ISR) – dai satelliti di sorveglianza agli UAV da ricognizione distribuiti fino ai minimi livelli ordinativi – rende estremamente difficile la realizzazione della sorpresa a tutti i livelli: strategico, operativo e tattico. Questo perché qualsiasi importante concentrazione di forze, in modo particolare terrestri, in un determinato settore, viene prontamente rilevata e analizzata, consentendo al difensore (in modo particolare quando si tratta degli ucraini) di reagire con prontezza, ad esempio con il fuoco o con il rischieramento di riserve e rinforzi. Essendo proprio la sorpresa non solo uno dei riconosciuti e fondamentali principi dell’arte militare, ma anche uno dei principali “moltiplicatori di potenza” di qualsiasi operazione offensiva, è chiaro come la sua assenza determini un’estrema difficoltà nella condotta con ragionevole successo di queste ultime. 

In tale quadro, a mantenere la situazione in equilibrio vi è anche l’impossibilità da parte russa di far valere la superiorità numerica e qualitativa delle proprie forze aeree, a causa delle numerose unità controaerei mobili ucraine, esattamente come già riferito a proposito della non fattibilità di operazioni avioportate o aeromobili . In esito a ciò, tra le sue peculiari caratteristiche questo pare essere il primo conflitto da diversi decenni a questa parte in cui il potere aereo non ha costituito, fino ad ora, un fattore davvero rilevante, almeno per quanto riguarda le piattaforme pilotate (un discorso a parte va fatto certamente per gli UAV e i sistemi missilistici per l’attacco a lungo raggio).

A tutti gli effetti, questa apparente superiorità dei mezzi e delle capacità della difesa sull’attacco ricorda quanto era avvenuto nel secolo scorso durante le prime fasi del primo conflitto mondiale, a dispetto dei primi chiari segnali in questo senso emersi in alcuni importanti eventi bellici precedenti, quali la guerra anglo-boera, quella russo-giapponese, e i conflitti balcanici, aspetti cruciali che non furono raccolti dai vertici dei principali eserciti dell’epoca. D’altronde, non sono mancati da più parti i tentativi di tracciare un parallelo storico in questo senso, con diversi commentatori che hanno voluto assimilare la battaglia di Bakhmut, ad esempio, a una “nuova Verdun”. Questa precisa tendenza era stata peraltro già chiaramente illustrata ancora prima dell’invasione russa dell’Ucraina da alcuni perspicaci commentatori, quali il professor Thomas Hammes, ricercatore dell’Institute for National Strategic Studies americano, il quale in un articolo dal titolo: “the tactical defense becomes dominant again” – sotto molti aspetti davvero profetico rispetto a quanto si sta verificando oggi – aveva già illustrato con dovizia di particolari tutti questi elementi.

Due futuri possibili schemi di manovra russa

In questo momento, le offensive russe in atto nel Donbas sembrano prefigurare due schemi di manovra in atto sotto la forma di altrettanti “doppi avvolgimenti”.

Il primo è in corso sulla cintura di villaggi a nord e sud di Bakhmut, volto a tagliare le principali vie d’accesso alla città e costringere così i caparbi difensori della città ad abbandonarla, pena il completo accerchiamento. Il secondo, partendo dall’area di Yakovlivka, a nord-est della stessa Bakhmut, vede le forze del 2° corpo d’armata (rappresentato dalle forze della repubblica separatista di Luhansk, ora ufficialmente integrate in quelle della federazione russa) spingere verso nord, in direzione di Siversk, con almeno quattro brigate fucilieri motorizzati in concomitanza di una seconda direttrice, che dall’area di Kreminna, con forze della 144a divisione e 30a brigata fucilieri motorizzati, spinge verso sud-ovest al fine di minacciare il tergo delle otto brigate ucraine che difendono la linea a ovest di Lysychansk.

Tuttavia, si tratta di attacchi con una progressione lenta, che pare metodica e sempre sostenuta da un nutrito fuoco di artiglieria. In particolare, le ultime analisi indicherebbero un adattamento dei procedimenti tattici russi; tra questi, citando un esempio tra i più rilevanti, vi sarebbe la creazione di un nuovo tipo di formazione, denominata “Shturmovoy otryad” (distaccamento d’assalto), di livello compagnia rinforzata, costituita integrando fanteria (dotata di lanciarazzi impieganti munizioni con testata termobarica, efficaci nell’impiego contro edifici), carri, una sezione di artiglieria/mortai semoventi, e un’aliquota logistica. Sarebbe questa, dunque, una delle soluzioni che gli attaccanti, in questa fase, stanno adottando per fronteggiare la situazione che emerge dal campo di battaglia.

La prevalenza dell’attrito sulla manovra

In ultima analisi, le operazioni terrestri in Ucraina, e più in generale l’intero andamento del conflitto, avrebbero ormai assunto il carattere di una lotta basata sull’attrito, molto più che sulla manovra. Una vera “Materialschlacht”, ossia una “battaglia di materiali”, come questa veniva definita dalla classica terminologia militare tedesca, dove la forza del numero e dell’acciaio hanno un ruolo preminente. Effettivamente, i riflessi sul livello strategico sono ormai accertati, con tutta una serie di analisi che parlano sempre più distintamente di ritorno alla dimensione industriale della guerra. Questo era già stato evidenziato in alcuni articoli pubblicati lo scorso anno, uno dei più noti dei quali apparso nel giugno 2022 sul sito del Royal United Service Institute dal titolo “The return of industrial warfare”. A tal proposito, le preoccupazioni manifestate da più parti sulla capacità da parte dei paesi NATO (e altri del mondo occidentale) di continuare a sostenere le forze armate di Kiev, soprattutto per quanto riguarda il munizionamento d’artiglieria, sono molto indicative. Nello stesso modo, sono diverse e articolate le valutazioni sulla reale efficacia delle sanzioni economiche sull’industria bellica russa, già mobilitata al massimo per sostenere lo sforzo bellico. Se questa tendenza andrà a confermarsi, è molto improbabile che la tanto pubblicizzata “grande offensiva” russa possa sfociare in una fase dinamica e manovrata, ammesso e non concesso che, preso atto della situazione contingente, questo possa essere il reale intento dei comandi russi. Essa potrebbe invece assumere i lineamenti di una pressione costante, su ampio fronte, secondo i dettami di un approccio basato su attacchi sistematici e massiccio ricorso al fuoco di artiglieria, e in esito a ciò progredire lentamente, ma inesorabilmente, con sfondamenti limitati, seguiti da successivi consolidamenti, così come è stato durante la battaglia del Donbas di maggio-luglio 2022. La stessa cosa, specularmente, potrebbe accadere nel caso di un nuovo passaggio dell’iniziativa dalla parte ucraina, con l’avvio di nuove controffensive per la riconquista dei territori occupati. Su questo versante, in ogni caso, dopo l’annosa vicenda della fornitura dei carri Leopard 2, è opportuno sottolineare come l’arrivo di questi mezzi – a meno che non avvenga in numeri davvero importanti che comunque non sembrano molto probabili – non potrà avere un impatto decisivo sull’andamento e soprattutto l’esito delle operazioni.

Questo, comunque, potrebbe drasticamente cambiare nel caso di un cedimento drastico e rilevante di uno dei due contendenti in uno o più settori sufficientemente ampi del fronte, cosa che al momento non sta avvenendo, ma che è pur sempre possibile. Se la “guerra di manovra” potrà prendersi una sua clamorosa rivincita (come è accaduto a Kharkiv lo scorso settembre), o se cederà definitivamente il passo a una lunga, logorante e metodica “guerra di usura”, verrà sancito solamente dalla consueta, inappellabile e dirimente sentenza di quel giudice definitivo che è il campo di battaglia.