Afghanistan: talebani, #COVID19 e Trump (C. Bertolotti a Radio 24)

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Pubblicato da Radio 24 su Giovedì 7 maggio 2020

Prosegue senza sosta la legittimazione politica e sociale dei talebani tanto che anch’essi hanno cambiato narrativa: da mujahidin a crocerossini?

I talebani sono estremamente bravi dal punto di vista comunicativo. Una capacità migliorata negli anni come dimostra l’ampio utilizzo del Web e dei social network fin dalla metà degli anni Duemila.

E l’emergenza Coronavirus, per gli eredi del mullah Omar, rappresenta una grande opportunità di consolidare la propria presenza nelle aree del paese che sono sotto il loro controllo e di estenderla nella altre. Certamente non proponendo soluzioni o cure, ma lasciando credere di essere in grado di farlo: una dimostrazione di capacità che, pur non essendo vera, viene però recepita come tale dalle popolazioni che si sentono abbandonate da uno Stato incapace di proporre soluzioni efficaci e che, dunque, guardano all’unica organizzazione che propone cure, assistenza, informazione. Ancora una volta i Talebani hanno vinto: dopo le vittime dell’esercito afghano e delle forze straniere sul campo di battaglia sono i cuori e le menti degli afghani a cadere nella trappola talebana. Il vero problema però emergerà con i numero di morti per coronavirus ma credo che anche in quell’occasione i talebani sapranno uscirne vincitori, evidenziando il numero dei guariti e dei non contagiati e non quello dei deceduti.

Dati recenti suggeriscono che un terzo della popolazione di Kabul (1.400.000 su oltre 4 milioni) è già infetto dal coronavirus e il governo afgano stima che alla fine 110.000 persone potrebbero morire.

I talebani controllano vaste aree della provincia di Herat, area di responsabilità italiana ed epicentro del focolaio da COVID19 dell’Afghanistan

Diventa stucchevole forse ripercorrere i grandi errori della comunità internazionali negli ultimi 20 anni. Che cosa si può fare adesso per evitare il tracollo di Kabul?

Temo sia tardi per fare qualcosa che salvi lo Stato afghano dal tracollo al quale è destinato. E pensiamo a uno Stato che oggi, a distanza di 8 mesi dalle elezioni presidenziali vede ancora i due contendenti, Ashraf Ghani e Abdulllah Abdullah, discutere su chi abbia vinto le elezioni e debba dunque governare il Paese.

Non la strategia, ma le strategie per l’Afghanistan di questi 19 anni sono state parziali, contraddittorie e ancor più spesso dettate dai tempi e dalle dinamiche della politica domestica statunitense: ogni presidente ha voluto modificare le strategie dei predecessori.

I talebani sono stati prima esclusi dal tavolo di pace di Bonn nel 2001, poi lasciati indisturbati, poi combattuti e infine invitati a un tavolo negoziale al quale sono loro oggi a dettare tempi e regole. I talebani hanno vinto, se non hanno conquistato il potere è solo una questione di tempo, ma questo passera attraverso una nuova farse della guerra civile che, dopo l’abbattimento dello Stato, vedrà contrapporsi gli storici gruppi di potere su base etnica: da una parte i talebani, con i pashtun e altre minoranza, dall’altra parte gli eredi di quella che fu l’Alleanza del Nord a lungo guidata da Ahmad Shah Massud: Tajiki, Hazara, Turkmeni.

Possiamo solamente attutire il colpo, concedendo ai talebani un ingresso non doloroso nelle stanze del potere e garantendo loro ciò che già detengono: il controllo dei traffici legati all’Oppio.

Claudio Bertolotti, quanto dai di successo alla missione di Zalmay Khalilzad in India e Pakistan? Serve davvero?

Zalmay khalilzad è l’uomo giusto al posto giusto. Il problema è il poco tempo che l’amministrazione Trump gli ha concesso – un tempo che segue le dinamiche elettorali per le presidenziali statunitensi. E i talebani lo sanno, pertanto puntano al miglior risultato possibile, giocando proprio sulla fretta statunitense di dichiarare concluso l’impegno in Afghanistan. Il Pakistan è sempre stato un attore di primo piano nel gestire i talebani e nello scompaginare le carte sui vari tavoli negoziali ogni volta che ha visto la situazione mutare a proprio svantaggio. Lo sta facendo anche oggi perché vede vicino l’obiettivo che si è da sempre imposto: avere una forma di potere amica, i talebani, nelle regioni al proprio confine, da poter controllare e da non dover temere. L’attuale governo, del primo ministro Khan, è sostenuto sia dai militari che dai gruppi islamisti: questo agevola la prosecuzione dei buoni rapporti con i Talebani.

L’India in Afghanistan ha investito moltissimo in 19 anni in progetti infrastrutturali, ospedali e servizi di assistenza. Lo ha fatto in particolare nelle aree sotto il controllo talebano e vicine al confine col Pakistan così da togliere a Islamabad un’area di influenza primaria nell’ottica di un confronto armato con l’India: un’area che garantirebbe in caso di scontro armato la necessaria profondità strategica.

Oggi l’India sembra intenzionata a fare un passo indietro, e certamente avrà influito la volontà statunitense di chiudere la partita in Afghanistan.




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