LUGANO

Terrorismo jihadista. La Svizzera non è (più) tranquilla

di Chiara Sulmoni

Attacco a Lugano: i fatti

Nel pomeriggio di martedì 24 novembre in un centro commerciale di Lugano una donna svizzera di 28 anni si è avventata su due clienti, afferrandone una al collo e ferendo l’altra gravemente, sempre al collo, con un coltello apparentemente prelevato poco prima nel reparto ‘casalinghi’. Secondo una testimonianza riportata dalla stampa, l’assalitrice, arrestata dopo essere stata bloccata da altre due persone presenti sulla scena, avrebbe urlato “sono dell’ISIS”. In seguito la Polizia Federale confermerà che la persona fermata era nota alle autorità già dal 2017, quando era apparsa in un’indagine collegata al jihadismo.

Il Ministero pubblico della Confederazione ha aperto un’inchiesta per Violazione della legge federale che proibisce i gruppi Al-Qaida e ISIS. È in seguito emerso come l’autrice, convertita all’Islam, fosse stata intercettata anche dai servizi di sicurezza di altri paesi europei.

START InSight: tra i jihadisti che hanno colpito in Europa fra il 2004 e il 2020, le donne sono il 4%

Un precedente attacco di questo genere nella Confederazione – si era trattato anche in quel caso di un’aggressione con coltello in luogo pubblico – aveva avuto luogo nel mese di settembre a Morges, nel Canton Vaud, ad opera di un cittadino svizzero-turco che pare intendesse “vendicarsi” dello Stato Svizzero da un lato, e vendicare il profeta Maometto dall’altro. Secondo un copione ormai collaudato, l’individuo era conosciuto ai servizi e aveva dei trascorsi in carcere per altri reati.

L’ultimo Rapporto dell’intelligence svizzera (2020) aveva ribadito come il rischio all’interno del paese rimanesse elevato -una condizione che perdura dal 2015-. Aveva inoltre attirato l’attenzione su come, sempre più spesso, si annoverino “autori la cui radicalizzazione e propensione alla violenza vanno ricercate in crisi personali o problemi psichici piuttosto che in un’opera di convincimento ideologico. In generale, la frequenza di atti di violenza che presentano un nesso marginale con l’ideologia o i gruppi jihadisti rimarrà costante o potrebbe addirittura aumentare. Gli aggiornamenti di FedPol sul caso di Lugano sembrano avvalorare questa pista -la donna, innamoratasi di un combattente e intenzionata a seguirlo in Siria (ma fermata al confine turco e rimpatriata), soffriva all’epoca di problemi psicologici ed era stata anche ricoverata in una struttura psichiatrica. Le modalità dell’attacco – sconclusionato e apparentemente senza la ricerca, fondamentale, del martirio – farebbe pensare a un atto dettato dall’attrattiva per la narrativa dello Stato Islamico piuttosto che da solide motivazioni religiose o ideologiche. Ma il fatto che si trattasse di una persona già monitorata e comunque “ferma” nei propri intenti, solleverà molti interrogativi – anche polemici – su come sia riuscita ad eludere ogni controllo. Al di là dell’aspetto securitario, per migliorare la comprensione del fenomeno e la valutazione del rischio, sarebbe utile capire se nel frattempo fossero stati messi in campo degli interventi o dei tentativi di de-radicalizzazione. La realistica consapevolezza di come riabilitazione e reintegrazione di estremisti e foreign fighters sia una sfida incerta, di lunga durata e difficile, è ad ogni modo ben chiara alle autorità.

La radicalizzazione nella Confederazione

Secondo i dati dei Servizi Informativi, a maggio 2020 gli individui considerati un rischio per la sicurezza interna (non solo jihadisti) erano 57, mentre dal 2012 ad oggi 670 individui hanno diffuso propaganda jihadista in/dalla Svizzera o sono entrati in contatto con individui che condividono le stesse idee. La Confederazione avrebbe un numero di foreign fighters pro-capite più alto dell’Italia. Dal 2001 al 2017 sono partiti in 92 per raggiungere vari fronti di guerra. Di questi, 32 sono morti mentre 16 sono rientrati e – scrive l’intelligence nel suo Rapporto 2020 – si starebbero comportando “discretamente”, salvo poche eccezioni (!). Su questo sito avevamo già scritto nel 2019 di un procedimento d’accusa e di un’imponente operazione anti-terrorismo nei Cantoni di Berna, Zurigo e Sciaffusa che avevano coinvolto alcuni individui recidivi e/o di ritorno dai territori del Califfato.

Il 2 ottobre 2020 il Ministero pubblico della Confederazione (MPC) ha disposto altre tre perquisizioni nel Cantone di Friborgo e arrestato quattro persone. Attualmente i procedimenti penali aperti sono 70, principalmente “per presunta propaganda o reclutamento a favore di organizzazioni terroristiche, per il finanziamento di tali organizzazioni e nei confronti di viaggiatori con finalità jihadiste, compresi quelli di ritorno”.

Anche il Ticino era stato interessato da un imponente blitz anti-terrorismo. Le indagini avevano messo in luce alcune ramificazioni verso l’Italia e collegamenti con la cosiddetta “cellula insubrica”

Inoltre, inchieste dei quotidiani Le Temps (di cui abbiamo parlato qui) e Sunday Times hanno svelato l’esistenza di piani targati Stato Islamico, diretti dalla Siria e fortunatamente sventati o mai messi a segno, per colpire depositi di combustibile e oleodotti a Basilea e a Ginevra fra il 2018 e il 2019, con l’obiettivo di arrecare gravi danni economici.

Anche il Ticino – che ha ‘dato’ al Califfato due combattenti – nel 2017 era stato interessato da un imponente blitz anti-terrorismo (possiamo solo presumere si tratti dello stesso che ha visto emergere il nome della donna di Lugano). Le indagini, sfociate in una condanna per attività di reclutamento e indottrinamento, avevano messo in luce alcune ramificazioni verso l’Italia, fra cui collegamenti con una precedente inchiesta (2016) relativa alla cosiddetta “cellula insubrica” che si muoveva fra Lugano, Varese e Lecco, di cui faceva parte fra l’altro il campione svizzero di kick-boxing Abderrahim Moutaharrik (sul ring con la maglia nera e il vessillo dello Stato Islamico) e Abderrahman, fratello di Oussama Khachia, il futuro foreign fighter che era stato espulso dall’Italia e si era trasferito a Lugano prima di proseguire verso il territorio del Califfato in Iraq-. Il gruppo era composto da unità famigliari che coinvolgevano anche Alice Brignoli, appena rimpatriata dalla Siria. 

Un panorama radicale centrifugo

A caratterizzare la geografia jihadista svizzera sono precisamente i contatti transnazionali che si estendono nelle nazioni limitrofe o verso i paesi di origine dei vari soggetti, nel caso di passato migratorio. Le strade della radicalizzazione infatti si fermano davanti alle barriere linguistiche, ciò che rende più difficile la nascita e la condivisione di una ‘scena’ interna alla Confederazione. Legami svizzeri emergono spesso anche nel corso di indagini condotte all’estero, come avvenuto con il recente attentato di Vienna e l’inchiesta sulle turiste scandinave uccise nel 2018 in Marocco (dove a scontare una pena c’è uno svizzero, anch’egli convertito).

Donne in armi

Verso la Siria e l’Iraq (dati dell’intelligence) sono partite circa 12 donne aventi un legame con la Svizzera. Le attentatrici rimangono però un’eccezione. Il Database di START InSight ha rilevato che tra i jihadisti che hanno colpito in Europa fra il 2004 e il 2020, le donne rappresentano il 4%. Una ricerca dell’Università di Scienze Applicate di Zurigo (ZHAW) di cui abbiamo scritto anche qui, sottolinea che tra i profili dei radicalizzati svizzeri, le donne figurano in numero inferiore rispetto alla media europea. Tuttavia, un recente studio delle Nazioni Unite mette criticamente in rilevo come i sistemi giudiziari tendano ad essere meno severi, a causa di un falso stereotipo che considera le donne meno attive o pericolose degli uomini. In questo modo, ricevono meno attenzioni anche per ciò che riguarda la riabilitazione e reintegrazione, esponendole a un rischio maggiore di recidivismo. Le dinamiche della cellula insubrica, ma anche diversi altri casi esteri, dimostrano che le donne possono ricoprire un ruolo importante nella diffusione della propaganda, nella radicalizzazione reciproca, e nell’occuparsi di aspetti logistici.

La sintesi dei profili svizzeri (per esteso a questo link)

Secondo lo studio svizzero summenzionato, basato sulle informazioni relative a 130 casi di cui si sono occupati i servizi nel corso degli ultimi dieci anni è emerso che il fenomeno della radicalizzazione jihadista in Svizzera coinvolge soprattutto gli uomini (90% circa dei profili forniti). L’età media è di 28 anni. I convertiti rappresentano il 20%. I radicalizzati tendono a vivere in aree urbane. Oltre la metà nella Svizzera tedesca, più del 40% nella Svizzera francese e poco meno del 4% nel Canton Ticino. L’intelligence ha recentemente indicato come solo un terzo dei viaggiatori con finalità jihadiste detenga la nazionalità svizzera. I problemi personali dei singoli individui – famiglie spezzate, lutti, episodi di discriminazione, uso di droghe, problemi psichiatrici, identità fragile etc.- fanno spesso da sfondo. I dati a disposizione non confermano la teoria del ‘crime-terror nexus’ – cioè il rapporto fra radicalizzazione jihadista e passato criminale; poche indicazioni anche riguardo a processi di radicalizzazione iniziati dentro il carcere. I casi di reati precedenti legati alla violenza fisica (aggressioni) sono predominanti. La radicalizzazione lampo rappresenta l’eccezione; nel 72% dei casi il processo ha avuto una durata di oltre un anno. Due terzi degli individui presi in esame sono entrati nel radar della sicurezza fra il 2013 e il 2015 ed erano impegnati principalmente in attività di propaganda.

Il rischio oggi

Con la perdita del territorio in Siria e in Iraq, il Califfato si è trasformato in un movimento terroristico e insurrezionale globale composto sia da cellule in contatto fra loro che da attentatori autonomi (ma non ‘solitari’!) che si ispirano allo Stato Islamico e per questo particolarmente difficili da intercettare anche a causa della pressione sulle forze di sicurezza. I radicalizzati da monitorare in Europa sono decine di migliaia. La frammentazione e la decentralizzazione della propaganda e delle attività jihadiste, hanno accresciuto la minaccia. Il fattore emulativo ha una forte incidenza: come rileva il database di START InSight, il 29% degli attentati avviene negli 8 giorni successivi ad un attacco ‘ispiratore’. Fra le armi privilegiate, si trovano proprio i coltelli (67% del totale). Fra il marzo del 2019 e il giugno del 2020 il Counter Extremism Group ha registrato una media di due attacchi di matrice islamista al mese in Europa, tra riusciti e sventati. Nel solo 2020 START InSight ha contato 21 eventi di matrice islamista. Un trend in deciso aumento.

Se nel complesso il terrorismo fa meno vittime e si appoggia anche alle azioni di individui che agiscono sulla spinta di motivazioni prettamente personali, riesce ad ogni modo ad incidere sulla percezione della sicurezza. La tranquilla Lugano ora si guarderà le spalle, e per il movimento jihadista, è già un successo di cui si potrà appropriare.

Foto: Immagine Twitter di Jeanne Perego Schimpke


Conversazione sull’Afghanistan con l’Amb. Stefano Pontecorvo e Claudio Bertolotti

23 razzi su Kabul sabato 21 novembre hanno lasciato una scia di sangue sulle strade della capitale e acceso nuove preoccupazioni, anche in vista del prossimo ritiro di truppe statunitensi dal paese.

Qual è la realtà sul territorio, come si muove la NATO, che prospettive si aprono per questo paese da tanto tempo in guerra?

Ne parlano in questo podcast di Radio Radicale:

Ambasciatore Stefano Pontecorvo (Alto Rappresentante della NATO in Afghanistan)

Claudio Bertolotti (Direttore di START InSight)

A cura di Francesco De Leo (giornalista, responsabile della comunicazione dell’Istituto Affari Internazionali, Direttore di AffarInternazionali)

Millevoci (RSI) – Noi e il terrorismo 5 anni dopo il Bataclan

Puntata di Millevoci curata e condotta da Roberto Antonini.

“E’ stata una delle pagine più buie della recente storia francese ed europea, quella scritta con il sangue 5 anni fa da un commando jihadista in diversi locali dell’est Parigino, il Bataclan ma anche diversi “bistrots”. L’incubo che ha tolto la vita a 130 persone e che ha aperto un’enorme ferita nel paese ha posto un intero continente di fronte all’orrore e a una minaccia costante, subdola e che negli anni successivi si è manifestata in diversi modi con in suoi attacchi a religiosi, semplici passanti, famiglie nei mercati natalizi, docenti, giornalisti. Il tutto in nome di un jihad contro gli infedeli condotto il più delle volte da giovani radicalizzati, da terroristi “fai da te”. Con la sconfitta dell’Isis in Iraq e Siria la piovra ha perso la testa, ma continua pericolosamente a manifestarsi in forme difficilmente controllabili. Come farvi fronte? Perché non si riesce a estirpare questo cancro dalle nostre società? Quale è la strategia migliore per de-radicalizzare chi ha abbracciato le forme più violente dell’estremismo religioso?”

Ospiti:
Fahrad Bitani, scrittore ed educatore afghano
Claudio Bertolotti, esperto di terrorismo e direttore del centro di ricerca Start Insight
Chiara Sulmoni, ricercatrice e autrice di inchieste e reportage sulla de-radicalizzazione
Lorenzo Vidino, direttore del programma sull’estremismo alla George Washington University


Formazione degli Imam in Europa. I limiti della proposta

di Andrea Molle

In seguito ai recenti attentati di Nizza e Vienna, Macron si incontra con i capi di stato e di governo di Austria, Olanda, Germania e ai vertici della UE per promuovere una serie di iniziative comuni in tema di controllo e prevenzione della minaccia terroristica, di riforma degli accordi di Schengen e di irrobustimento delle frontiere esterne dell’Unione. Tra le prime conseguenze dell’incontro spicca una vecchia ossessione francese: delineare un sistema di formazione e certificazione statale degli Imam, o magari a livello sovra nazionale, come rilanciato qualche giorno fa dal Presidente del Consiglio Europeo Charles Michel. In questo modo, secondo la teoria francese che sta facendo breccia nelle istituzioni dell’Unione, si ridurrebbe il rischio di ingerenze straniere e di infiltrazioni di elementi radicalizzati, e radicalizzanti, nel tessuto religioso islamico europeo. Si tratta di un approccio tipicamente transalpino, che in Francia è applicato con discreto successo in diversi settori della società civile: dalle professioni alle federazioni sportive, passando per le scuole di formazione. Ma l’estensione di questo principio alla religione è una sostanziale novità persino nel panorama francese. Se ad una prima lettura può sembrare una buona idea, vi sono ragioni per ritenere questa svolta molto più pericolosa del problema che si propone di risolvere. Quello della formazione interna, con certificazione statale, dei leader religiosi è un tema molto spinoso. Da un lato è certamente vero che sono le stesse comunità a volersi dotare, “dal basso”, di percorsi di formazione che prescindano da strutture, gerarchie e supporti economici riconducibili a paesi stranieri. Ma dall’altro è altrettanto vero che qualora lo Stato si facesse soggetto agente, in posizione dominante, dei percorsi di formazione e soprattutto diventasse l’unica fonte di legittimità, questi stessi processi sarebbero vissuti come l’ennesimo tentativo di ingerenza in quelle stesse comunità laddove la radicalizzazione è proprio una reazione alla percezione di marginalizzazione, deprivazione relativa e aumento del controllo statale. Soprattutto se il sistema non venisse ad essere esteso a tutte le religioni praticate, incluso il Cristianesimo, questa ingerenza finirebbe per incrementare il rischio di radicalizzazione.

se ad una prima lettura può sembrare una buona idea, vi sono ragioni per ritenere questa svolta molto più pericolosa del problema che si propone di risolvere

Una svolta decisamente statalista e per certi versi ipocrita se applicata dagli stessi governi che la condannano quando a farlo sono Russia e Cina, verrebbe inoltre a scontrarsi con due realtà già chiare a chi si occupa di questi fenomeni. In primo luogo è puro wishful thinking che la centralizzazione risulti in una diminuzione del rischio di radicalizzazione. Il primo problema di questa proposta, come affermano oggi i leaders dell’Islam francese, è che la presenza di un sistema di formazione degli “Imam di Stato” non beneficerebbe di alcuna legittimazione teologica da parte del mondo mussulmano. Il secondo limite della proposta è che molto difficilmente porterebbe alla scomparsa di gruppi guidati da leader non riconosciuti dal governo, magari sponsorizzati da paesi stranieri, la cui autorità religiosa sarebbe più legittima. É piuttosto probabile che finirebbero per tramutarsi in gruppi underground maggiormente suscettibili alle infiltrazioni e ancora di più difficile monitoraggio.

un sistema di formazione degli “Imam di Stato” non beneficerebbe della legittimazione teologica da parte del mondo mussulmano 

A questi limiti oggettivi va aggiunto che l’assunto secondo cui i luoghi religiosi sono deliberatamente creati come luoghi di radicalizzazione è solo un mito, che riposa sulla concezione francese di religione come fatto privato irrazionale, intrinsecamente prono alla violenza. Questa è un’idea molto diffusa politicamente, ma che non è affatto corroborata da evidenze scientifiche. La letteratura scientifica suggerisce piuttosto che i luoghi di culto, una risposta di per sé sana alla crisi sociale delle seconde e terze generazioni dell’immigrazione extra-europea, siano diventati con il tempo facile preda del radicalismo proprio perché ignorati, quando non apertamente osteggiati, dai governi occidentali. Sembrerebbe insomma che l’ortodossia francese in tema di separazione tra Stato e Chiesa sia una concausa più che una soluzione al problema del radicalismo. Questo è quanto suggerisce anche Chems-Eddine Hafiz, Rettore della Grande Moschea di Parigi, che insiste su come il problema fondamentale sia che la mancanza di tutela dell’Imam e la mancata professionalizzazione della sua figura producano la necessità di ricorrere a figure e soprattutto risorse finanziarie straniere.

sembrerebbe che l’ortodossia francese in tema di separazione tra Stato e Chiesa sia una concausa più che una soluzione al problema del radicalismo

Una recente proposta di legge patrocinata dallo stesso Presidente francese sembrava andare nell’ottima direzione di integrare finalmente l’Islam, e le altre religioni minoritarie, in un quadro di accettazione della dimensione pubblica ed educativa della religione abbandonando l’ortodossia laicista, basata appunto sul mito della secolarizzazione. È quindi ancor più palese che la proposta odierna ci riporterebbe indietro di almeno un decennio nella lotta alla radicalizzazione. Invece che ricorrere ai monopoli di stato, una soluzione migliore e più coerente con le conoscenze scientifiche di settore potrebbe essere piuttosto quella di liberalizzare, aumentando la possibilità per gruppi e soggetti indipendenti, tendenzialmente moderati, di accedere al “mercato religioso” francese.

la proposta odierna ci riporterebbe indietro di almeno un decennio nella lotta alla radicalizzazione

Questi elementi finirebbero quasi certamente per isolare le esperienze più estremiste e violente tramite i normali meccanismi di concorrenza di libero mercato. Sembra invece che Macron, insieme a molti suoi colleghi Capi di Stato, sia caduto nella trappola tesa dai recenti attentati di Nizza e Vienna. Laddove l’Austria pensa addirittura di mettere fuori legge l’Islam politico, ignorando quanto esso sia estremamente difficile da definire e operazionalizzare, e la riunione dei ministri dell’Interno dell’Unione preannuncia una nuova stretta sui controlli e sulla propaganda online, a nostro avviso il vero vincitore è proprio il radicalismo islamico. In linea con gli obiettivi più classici del terrorismo, cioé provocare una reazione eccessiva e scomposta guidata da logiche di politica interna, temiamo che il nuovo corso dell’Europa finirà per beneficiare solo il radicalismo incrementandone il bacino di reclutamento.