RaiNews24 Flussi migratori e jihadismo nel Mediterraneo. Ne parla Claudio Bertolotti

L’Evoluzione del terrorismo, i punti di contatto tra jihadismo e flussi migratori. La minaccia terroristica tra adattamento ed evoluzione.

Ne ha parlato a Rainews24 il Direttore Claudio Bertolotti, partendo da un approfondimento del suo ultimo libro “Immigrazione e terrorismo. I legami tra flussi migratori e terrorismo di matrice jihadista“.

La connessione tra criminalità organizzata e gruppi terroristici jihadisti include, in particolare, le organizzazioni criminali tunisine e italiane coinvolte nella migrazione irregolare e nel traffico di droga dalla Tunisia all’Italia, e la capacità della criminalità organizzata italiana di produrre documenti contraffatti dell’UE utilizzati dai migranti illegali, potenzialmente legati a gruppi terroristici, per viaggiare all’interno dell’area Schengen. Questa immigrazione irregolare dalla Tunisia all’Italia è diversa da quella dalla Libia all’Italia per il coinvolgimento diretto e la stretta cooperazione tra mafie italiane e trafficanti e contrabbandieri tunisini.
Il fenomeno migratorio è dunque caratterizzato da una significativa componente irregolare ed è, al tempo stesso, sfruttato da soggetti e gruppi radicali, criminalità organizzata e organizzazioni terroristiche; tutto ciò fa del fenomeno migratorio irregolare ed illegale una seria sfida per gli stati europei”.

 


La posta in gioco. Come leggere la serie di attentati in Francia?

di Chiara Sulmoni e Claudio Bertolotti

La Francia non è il paese europeo con il maggior numero di individui radicalizzati nel radar dei servizi di intelligence (è superata in questo dalla Gran Bretagna). Sicuramente però, è quello più toccato dalla violenza di matrice islamista. Il database di START InSight ha registrato 58 episodi di questa natura dal 2015 ad oggi.

L’accelerazione sanguinaria dell’ultimo mese – il fatto che i terroristi che hanno colpito a Parigi il 25 settembre (attacco nei pressi della vecchia sede del Charlie Hebdo), il 16 ottobre (decapitazione del Prof. Samuel Paty) e a Nizza il 29 ottobre (brutali attacchi all’arma bianca nella cattedrale di Notre-Dame) siano individui giunti da poco in Europa – ha segnato un cambio di passo. Le ragioni degli attacchi, è stato detto ormai da più parti, hanno a che vedere con i valori della Repubblica – laicità e conseguente totale libertà d’espressione che include il diritto alla blasfemia – che non sono allineati con il sentire di chi aderisce a una lettura fondamentalista dell’Islam. Una lettura diffusa e propagata anche attraverso reti, associazioni, media.

Da 15 anni ormai analisti e ricercatori dedicano il loro lavoro a comprendere le ragioni, le strade e i mezzi del terrorismo cosiddetto homegrown – della porta accanto – emerso in Europa all’inizio degli anni 2000 dall’incrocio esplosivo tra la “militarizzazione” dell’Islam avviata con l’11 settembre (cioè, il suo utilizzo come strumento di vendetta e di supremazia nei confronti dell’Occidente) e situazioni di disagio e marginalizzazione dentro il cuore del Vecchio continente, nelle sue strade e nei suoi quartieri.

Di fronte a un’onda violenta di sempre maggiori dimensioni, che l’approccio securitario non è in grado di contenere, anche il linguaggio degli organismi internazionali è progressivamente cambiato e dalla lotta al terrorismo si è progressivamente passati all’impegno nel contrasto e nella prevenzione dell’estremismo, per approdare al tentativo ancora incerto della de-radicalizzazione. Se il terrorismo homegrown aveva motivazioni prevalentemente – anche quando inconsciamente – politiche (come richiede l’idea stessa di “costruzione” di uno Stato Islamico, concreto o utopico che sia), ci troviamo ora ai piedi della scala. Perché già il primo evento tragico che aveva messo in evidenza l’esistenza di una scena estremista tipicamente europea, avvenuto il 2 novembre 2004 ad Amsterdam, era maturato in un contesto di fondo simile a quello della recente ondata. Si è trattato dell’omicidio brutale del regista Theo van Gogh, colpevole di aver girato un film sulla violenza di genere nell’Islam, considerato blasfemo. Un “sentire” che può accomunare musulmani tanto rigoristi quanto terroristi in ogni angolo del mondo, portandoli a manifestare ma anche ad agire indiscriminatamente a ogni latitudine (come nell’attacco al consolato francese a Jeddah del 29 ottobre).

Gli attentatori che hanno colpito la Francia ad ottobre non sono i cosiddetti homegrown cresciuti nelle sue banlieues: la motivazione di questi attacchi è prevalentemente religiosa

Gli attentatori che hanno colpito la Francia ad ottobre non sono cresciuti nelle sue banlieues. Non hanno operato in rappresentanza dello Stato Islamico o di altre sigle, ma hanno agito per una convinzione che stride con i valori di una Repubblica, alla quale d’altra parte non appartengono. La motivazione di questi attacchi è prevalentemente religiosa. Se la radicalizzazione homegrown – attraverso la violenza organizzata – porta in un certo senso al prevalere dell’aspetto politico su quello religioso (almeno agli occhi di chi ha studiato il fenomeno), gli ultimi eventi hanno portato al prevalere della religione sulla politica (anche se poi, il sentire religioso viene politicamente manipolato).

Il piano preannunciato da Macron accosta pericolosamente lo Stato (laico) all’Islam

Il piano preannunciato dal Presidente Macron, che intende combattere il “separatismo islamista”, accosta pericolosamente lo Stato (laico) all’Islam. Il rischio e la grande incomprensione che ne potrebbe derivare, è il pensiero che lo Stato intenda sanzionare e determinare cosa sia lecito e cosa no, in termini di fede e pratica; che voglia modellare un Islam europeo – o francese. Un concetto già in voga in passato, ma che è oggi inadeguato e ormai superato, e che deve essere sostituito – anche a livello linguistico – con l’idea della cittadinanza, di cittadini europei musulmani con diritti e doveri. Un modello in gran parte già acquisito.

La questione dell’immigrazione

A partire dall’autunno del 2015, momento in cui l’Europa è stata colpita dai più cruenti attacchi terroristici di matrice jihadista, l’opinione pubblica ha iniziato a sentirsi fortemente minacciata. Due questioni si sono improvvisamente imposte all’interno del dibattito pubblico e politico come fattori tra di loro indissolubilmente collegati: il terrorismo e i flussi migratori. I recenti attacchi avvenuti in Francia, a Parigi e a Nizza il 25 settembre, il 16 e il 29 ottobre, impongono una riflessione ulteriore sull’evoluzione della minaccia terroristica in Europa, dove agli aspetti politici e sociali si sommano quelli religiosi ed ideologici.

Preoccupa che potenziali jihadisti possano penetrare in Europa nascosti tra i migranti

Il fatto che jihadisti possano penetrare in Europa nascosti tra i migranti provenienti dal Nord Africa (ma anche dai Balcani) è un fattore di preoccupazione e allarme per i paesi europei, in particolare quelli che sono sulla prima linea dell’immigrazione come l’Italia.

La connessione tra criminalità organizzata e gruppi terroristici jihadisti include, in particolare, le organizzazioni criminali tunisine e italiane coinvolte nella migrazione irregolare e nel traffico di droga dalla Tunisia all’Italia, e la capacità della criminalità organizzata italiana di produrre documenti contraffatti dell’UE utilizzati dai migranti illegali, potenzialmente legati a gruppi terroristici, per viaggiare all’interno dell’area Schengen. Questa immigrazione irregolare dalla Tunisia all’Italia è diversa da quella dalla Libia all’Italia per il coinvolgimento diretto e la stretta cooperazione tra mafie italiane e trafficanti e contrabbandieri tunisini.

Il fenomeno migratorio è dunque caratterizzato da una significativa componente irregolare ed è, al tempo stesso, sfruttato da soggetti e gruppi radicali, criminalità organizzata e organizzazioni terroristiche; tutto ciò fa del fenomeno migratorio irregolare ed illegale una seria sfida per gli stati europei.

Nel 2020 ci sono stati 21 attacchi terroristici e azioni violente riconducibili al jihadismo

La minaccia di terrorismo in Europa è significativa. Nel 2020 ci sono stati 21 attacchi terroristici e azioni violente riconducibili al jihadismo; erano 19 nel 2019, 27 nel 2018. Le vittime sono in prevalenza civili. In Italia sono stati 8 gli episodi di violenza di questo tipo negli ultimi cinque anni: un dato inferiore rispetto a Francia, Regno Unito e Germania ma che nei prossimi anni potrebbe allinearsi con il resto d’Europa per la maggior presenza di immigrati di seconda generazione che per varie ragioni sono in genere più vulnerabili al richiamo jihadista.

Il pericolo maggiore è costituito dai radicalizzati cresciuti in Europa ma stimolati dall’attivazione emotiva della propaganda islamista e jihadista

Il pericolo maggiore è rappresentato dai radicalizzati cresciuti all’interno dei contesti nazionali ma stimolati dal sistema di “attivazione emotiva” della propaganda islamista e jihadista. Dalla radicalizzazione all’azione il passo è breve.

Aumentano i jihadisti tra gli adolescenti e i giovani adulti, con un’età compresa tra i 15 e i 27 anni, molti giunti in Italia in tenera età; un’evoluzione che obbliga gli organi investigativi a concentrarsi su un numero sempre maggiore di radicalizzati da monitorare o da espellere nel caso di soggetti privi di cittadinanza italiana. Sono circa 500 i soggetti identificati ed espulsi per terrorismo dall’Italia dal 2015 a oggi. La maggior parte proveniva dall’area del Maghreb e del Mashreq (Marocco, Tunisia, Egitto) e dai Balcani: per lo più immigrati irregolari o di recente regolarizzazione.

Fra ciò che è emerso a margine del processo sull’attentato che ha avuto luogo alla Manchester Arena nel 2017, c’è la dichiarazione di una guardia di sicurezza che, allertata circa il comportamento sospetto di Salman Abedi, avrebbe preferito non procedere con un controllo, per il timore di essere considerato razzista.

Anche in funzione preventiva, è necessario poter affrontare di petto tutti gli aspetti legati ai processi di radicalizzazione e di violenza jihadista (o di altri orientamenti), incluso quello migratorio che è peraltro sostenuto dai numeri, in modo costruttivo, aperto e onesto.

Photo by Fabien Maurin


Libia: le ambizioni della Turchia. La competizione tra Ankara, Mosca e il Cairo nel settore Security Force Assistance (SFA)

Lo sforzo militare in Libia: le conseguenze della collaborazione militare turco-libica

di Claudio Bertolotti

Il 15 settembre, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha chiesto al Segretario Generale Antonio Guterres di nominare un inviato speciale per la pace in Libia; in tale occasione Russia e Cina si sono astenute dal voto sulla risoluzione che avrebbe esteso anche la missione Onu nel Paese.

Il giorno successivo, 16 settembre, il primo ministro libico Fayez al-Sarraj, alla guida del governo di accordo nazionale (GNA) di Tripoli – che controlla parte della Libia occidentale –, ha annunciato la sua intenzione di dimettersi; una decisione, le cui ragioni non sono note, che ha lasciato spazio a numerose speculazioni. Molti ritengono che la decisione sia frutto delle forti pressioni internazionali – in particolare da parte statunitense – allo scopo di assecondare i paesi che si sentono più minacciati dagli accordi firmati dalla Libia con la Turchia, in particolare l’accordo di demarcazione del confine marittimo – exclusive economic zone (EEZ) – che più preoccupa gli europei, in primis la Francia e la Grecia. Un accordo che è stato accompagnato dall’aiuto militare della Turchia al GNA e grazie al quale, a giugno, è stato posto termine all’assedio di Tripoli durato oltre un anno da parte delle forze del generale Khalifa Haftar, comandante dell’esercito nazionale libico (Libyan National Army, LNA) del governo della Libia orientale di Tobruk.

Si tratta di un’evoluzione politica significativa e con rilevanti conseguenze strategiche sebbene, ad oggi, la Libia rimanga ancora fortemente divisa sui due principali fronti – Tripoli e Tobruk – in cui più attori perseguono propri obiettivi. Ma le dimissioni di al-Sarraj, se confermate, potrebbero compromettere seriamente i rapporti tra Ankara e Tripoli poiché l’accordo siglato dai ministri della difesa turchi e qatarioti il 17 agosto prevede che i due paesi forniscano assistenza alle forze di sicurezza libiche. E in tale quadro il GNA e la Turchia hanno già avviato una serie di programmi per la ricostruzione delle forze armate libiche: una collaborazione che è stata formalmente confermata il 20 settembre dal ministro della Difesa libico Salah Eddine al-Namrush.

I programmi, che ufficialmente mirano a istituire una forza militare in linea con gli standard internazionali, includono la ristrutturazione delle forze armate di terra, della marina, delle difese aeree, delle unità antiterrorismo e per operazioni speciali. In base all’accordo, i “consiglieri militari” turchi dovrebbero svolgere attività di addestramento e di assistenza logistica in cooperazione con il Qatar. Secondo il  quotidiano “Daily Sabah”, l’esercito turco fornirà assistenza (security force assistance, SFA) nella fase di transizione che dovrebbe portare, attraverso un processo di disarmo, smobilitazione e reinserimento (disarmament, demobilisation and reintegration, DDR) all’integrazione delle milizie irregolari in un esercito regolare; un ruolo, quello giocato dalla Turchia, che segue il copione  già utilizzato da Ankara nell’addestramento dell’esercito dell’Azerbaijan, dove le forze turche hanno fornito supporto, formazione, assistenza ed equipaggiamenti alle loro controparti azere. Il processo avviato in Libia da Turchia e Qatar, in linea con l’esperienza azera, mira a standardizzare sia l’addestramento che il reclutamento.

Combattenti, istruttori militari ed equipaggiamenti: la competizione tra Ankara, Mosca e il Cairo nel settore Security Force Assistance (SFA)

Come abbiamo visto, dunque, da un lato Ankara sta supportando il GNA con una missione di Security Force Assistance, formalmente attuata mediante accordi bilaterali con Tripoli; una missione supportata dalla fornitura di equipaggiamento militare e dal corredo di armi che Ankara fornisce a Tripoli, con ciò confermando l’inefficacia dell’embargo sulle armi delle Nazioni Unite – autorizzato dalle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (UNSCR) 1970 (2011), 2292 (2016) e 2473 (2019) – , e attuato in maniera non efficace dalla missione EUNAVFORMED “Irini”, il cui compito è quello di prevenire la fornitura di armi alla Libia. Un dispiegamento di personale militare da parte della Turchia che si accompagna al trasferimento di almeno dieci tipi di equipaggiamento militare tra cui sistemi di guerra elettronica, missili guidati anticarro, droni da combattimento, cannoni semoventi di difesa aerea, artiglieria, sistemi missilistici terra-aria, equipaggiamenti di marina e sistemi leggeri anti-aereo.

D’altro lato la Turchia ha svolto e svolgerebbe un ruolo da cui derivano maggiori criticità. È ormai nota la presenza di mercenari siriani inviati dalla Turchia in Libia per combattere a supporto del GNA: almeno 5.000 combattenti siriani, in parte provenienti dalla cosiddetta “Divisione Hamza” e la formazione estremista “Sultan Murad” (tra i gruppi ribelli siriani, sostenuti dalla Turchia, che hanno inviato combattenti in Libia), sono stati inviati in aiuto delle milizie alleate di Tripoli impegnate a contrastare le forze dell’LNA guidato dal generale Khalifa Haftar. Elementi reclutati, addestrate ed equipaggiati dalla Turchia e armati di mezzi corazzati Fnss Acv-15, lancia granate Milkor Mgl e missili anticarro statunitensi Bgm-71 Tow. È probabile che la presenza di jihadisti siriani finanziati dalla Turchia possa peggiorare le condizioni di sicurezza del paese portando a una reazione ostile da parte dell’opinione pubblica libica. Un pericolo di cui lo stesso GNA sarebbe consapevole, tanto da aver favorito il trasferimento da parte della Turchia di alcuni di questi jihadisti-mercenari in Azerbaigian, dove le ostilità contro l’Armenia aumentano al pari delle ambizioni turche nella regione.

Guardando all’altro fronte, quello tenuto dall’LNA e sostenuto da Emirati Arabi Uniti (EAU), Egitto e Russia, è possibile constatare un impegno in termini militari tutt’altro che marginale.

Gli Emirati Arabi Uniti hanno dispiegato personale militare e trasferito in Libia almeno cinque tipi di equipaggiamento, inclusi veicoli corazzati, veicoli da ricognizione aerea e un caccia francese Dassault Mirage 2000-9.

La Russia ha trasferito almeno due tipi di equipaggiamento, tra cui jet da combattimento Mig-29A operativo presso la base aerea di Al Jufra e un aereo d’attacco supersonico Sukhoi SU-24, operativo dalle basi aeree di Al Jufra e Al Khadim. A questi equipaggiamenti si uniscono componenti corazzate a favore della compagnia di sicurezza privata russa “Wagner”, che consente alla Russia di poter operare militarmente nell’area senza essere coinvolta sul piano formale, con ciò potendo negare o minimizzare qualunque coinvolgimento diretto o eventuali perdite russe in Libia. Il gruppo “Wagner” avrebbe trasferito operatori militari privati ​​armati e attrezzature militari in Libia per sostenere le operazioni militari di Haftar, inclusi due mezzi corazzati da trasporto truppe. Gli operatori della “Wagner” risulta abbiano preso parte al ritiro delle forze di Haftar da Bani Walid tra il 27 maggio e il 1 luglio scorsi. Risulta che tali operatori fossero, e in parte ancora siano, dislocati nelle cinque basi aeree di Al Jufra, Brak, Ghardabiya, Sabha e Wadden, e presso l’impianto petrolifero di Sharara, il più grande del paese. Il coinvolgimento della “Wagner” in Libia, con un numero complessivo di circa mille operatori, consiste di fatto nel supporto tecnico per la riparazione di veicoli militari e nella partecipazione diretta a operazioni di combattimento in qualità di tecnici di artiglieria, osservazione aerea, oltre a fornire supporto nelle contromisure elettroniche e a schiera squadre di tiratori scelti. Il personale è principalmente russo, ma tra le fila del gruppo sono presenti anche cittadini di Bielorussia, Moldavia, Serbia e Ucraina.

Il rifornimento aereo di entrambe le parti è un fatto accertato, come dimostra l’intenso traffico aereo dagli Emirati Arabi Uniti all’Egitto occidentale e alla Libia orientale, così come dalla Russia, attraverso la Siria, alla Libia orientale e dalla Turchia alla Libia occidentale. Numerose, in particolare, le compagnie commerciali che, per conto degli attori statali impegnati nel conflitto libico, sono accusate di violare l’embargo sulle armi fornendo supporto logistico alle forze di Haftar; tra queste le compagnie aeree di Kazakistan, Siria, Ucraina e Tagikistan e due compagnie aeree degli Emirati Arabi Uniti. Per quanto riguarda i rifornimenti via mare, cinque navi battenti bandiera di Albania, Libano, Tanzania e Panama e dirette verso i porti libici controllati dal GNA sono state accusate di violazione dell’’embargo sulle armi insieme a due destinate ai porti orientali in mano all’LNA: un bastimento battente bandiera liberiana, ma di proprietà di una compagna emiratina, l’altro battente bandiera delle Bahamas, ma di proprietà giapponese.

BBC (2020), Wagner, shadowy Russian military group fighting in Libya‘, 7 maggio.
Bertolotti, C. (2020, [1]), EUNAVFORMED “Irini” operation: constraints and two critical issues, START InSight
Bertolotti, C. (2020, [2]), La Libia è instabile: nessuna soluzione politica senza impegno militare. La strategia turca indebolisce l’Italia, Osservatorio Strategico Ce.Mi.S.S. N. 1/2020.
Bertolotti, C. (2020, [3]), L’espansione di Mosca in Libia: il ruolo dei contractor russi della Wagner, START InSight e Osservatorio Strategico Ce.Mi.S.S.
Butler, D., Gumrukcu, T. (2020), Turkey signs maritime boundaries deal with Libya amid exploration row, 28 novembre.
Daily Sabah (2020), Libya starts implementing joint military programs with Turkey, defense minister says.
Lederer, E.M. (2020), Experts: Libya rivals UAE, Russia, Turkey violate UN embargo, Associated Press, 9 settembre, 2020.
Magdy, S. (2020), US: Turkey-sent Syrian fighters generate backlash in Libya, The Washington Post, 2 settembre.


Principali eventi nell’area del Maghreb e del Mashreq – Settembre

Algeria: la crescente importanza delle relazioni Algeria-Turchia
Algeria e Turchia mirano entrambe a costruire una relazione reciprocamente vantaggiosa, pur a fronte delle sfide legate all’instabilità regionale e alla crisi economica. L’instabilità dell’area mediorientale e nord-africana, in particolare in Libia, e il desiderio di ampliare i legami politici ed economici, hanno avvicinato l’Algeria e la Turchia. L'”Accordo di amicizia e cooperazione” firmato nel 2006 in Algeria dal governo allora in carica (Partito AK di Erdogan), di cui l’attuale esecutivo rappresenta la prosecuzione, segna uno dei primi tentativi di Ankara di ricalibrare le sue relazioni con l’Occidente e il sud del mondo. Da allora, ci sono state altre tre visite di stato di Erdogan, l’ultima nel gennaio 2020, a seguito della partenza del presidente algerino Abdelaziz Bouteflika che è stato deposto dal potere e costretto alle dimissioni nell’aprile 2019 (Gjevori, 2020).
Egitto: taglio dei tassi di interesse a causa della bassa inflazione
Il 24 settembre la banca centrale egiziana ha inaspettatamente tagliato di 50 punti i suoi principali tassi di interesse, giustificando la scelta sulla base di un’inflazione eccezionalmente bassa che ha consentito il rilancio dell’economia. Il Comitato per la politica monetaria (MPC) della banca nazionale ha ridotto il tasso sui prestiti al 9,75% e il tasso sui depositi all’8,75%. L’inflazione è rimasta ben al di sotto dell’obiettivo indicato dalla banca centrale, dal 6% al 12% (MPC, 2020).
Israele: un nuovo accordo di pace con gli Emirati Arabi Uniti
Il 15 settembre il presidente degli Stati Uniti Donald J. Trump e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu si sono uniti ai ministri degli esteri degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrain alla Casa Bianca per firmare gli storici accordi di normalizzazione tra Israele e i due paesi arabi. Israele ha ufficialmente stabilito pieni legami diplomatici con il Bahrein e gli Emirati Arabi Uniti. Da un lato l’accordo è presentato come un passo verso la pace in Medio Oriente, dall’altro potrebbe essere letto come istituzione di un nuovo fronte contro Iran e Turchia.
Libano: Macron accusa Hezbollah per il tracollo politico del Libano
In meno di un anno, il Libano è stato colpito da un tracollo economico e finanziario, crescenti proteste di massa, una pandemia incontenibile a cui si sommano le conseguenze dell’enorme esplosione del 14 agosto che ha di fatto distrutto il principale porto del paese, uccidendo più di 190 persone e provocando fino a 4,6 miliardi di dollari di danni nella capitale Beirut.
Il 26 settembre, dopo più di un mese dall’esplosione e in piena empasse politica, il primo ministro designato Mustapha Adib si è dimesso, non essendo riuscito a formare un governo di emergenza per affrontare le più gravi crisi che il Libano si sta trovando ad affrontare dalla fine della guerra civile durata 15 anni.
A fronte di tale desolante quadro, il presidente francese Emmanuel Macron ha recentemente evidenziato il rischio di una nuova “guerra civile”’ e invitato i politici libanesi a trovare una soluzione mediata e di compromesso che consenta di formare un governo con cui avviare la ricostruzione del paese: Macron ha incolpato Hezbollah di aver sabotato il processo sponsorizzato dalla Francia per formare un governo. Hezbollah è il partito politico al governo in Libano, sostenuto dall’Iran e legato all’ala militare nota per aver combattuto in Siria al fianco delle unità siriane e iraniane (Cornish, Abboud, 2020).
Marocco: contrazione economica, crisi e disoccupazione
Il capo della sicurezza marocchina Abdelhak Khiame, capo del Central Bureau of Judicial Investigation (BCIJ), ha lanciato l’allarme sul pericolo rappresentato dal gruppo terroristico Stato islamico che si è consolidato “nella regione del Sahel-Sahara, sfruttando l’insicurezza legata al conflitto in Libia e in paesi come il Mali”. Nel Sahel – ha dichiarato Khiame – “si sviluppano cellule terroristiche e terrorismo, ma anche reti di criminalità organizzata, traffico di droga, armi ed esseri umani”.
Sul piano economico, il ministro dell’Economia, delle finanze e della riforma amministrativa Mohamed Benchaâboun ha dichiarato che l’economia nazionale dovrebbe crescere del 4,8% nel 2021. Considerato lo scenario previsto dal Fondo monetario internazionale (FMI) relativo alla ripresa dell’economia mondiale (+5,2 %), in particolare nella zona euro (5,3%), «la crescita economica marocchina dovrebbe attestarsi al 4,8%». Una crescita che però, ha proseguito il ministro, «non ha potuto compensare completamente la contrazione economica del 2020, prevista a -5,8%, a causa della.. [mancata] ripresa di alcuni settori come il turismo e attività connesse, nonché il deterioramento del mercato del lavoro e degli investimenti delle imprese ».
Siria: Carabinieri rimpatriano la “sposa dell’ISIS” italiana Alice Brugnoli
Il 29 settembre, il Raggruppamento Operativo Speciale (ROS) dei Carabinieri ha dichiarato di aver arrestato in Siria Alice Brignoli, una “sposa dell’Isis” italiana. Brignoli era la moglie di Mohamed Koraichi, un marocchino naturalizzato italiano attraverso il matrimonio e diventato militante dello Stato islamico(IS). La coppia aveva lasciato l’Italia nel 2015 per unirsi al gruppo terrorista in Siria, portando con sé i loro tre figli. Koraichi, che si pensa sia morto, ha preso parte alle operazioni militari dell’IS, mentre Brugnoli ha avuto un “ruolo attivo nell’insegnare ai bambini la causa del jihad”. È accusata di associazione a delinquere per terrorismo. L’unità ROS ha rintracciato Brignoli e i suoi quattro figli – ha dato alla luce il suo quarto figlio in Siria – e li ha riportati in Italia (ANSA).
Attacco hacker al ministero degli esteri britannico: fuga di informazioni sulla Siria.
Hacker sono penetrati nei sistemi informatici del ministero degli Esteri del Regno Unito e hanno preso centinaia di file che descrivono dettagliatamente i controversi programmi di propaganda siriani. In una violazione della sicurezza di proporzioni enormi, gli hacker sembrano aver deliberatamente preso di mira file che definiscono le relazioni finanziarie e operative tra il minister degli Esteri, il Commonwealth and Development Office (FCDO) e una rete di appaltatori del settore privato che hanno gestito e gestiscono in maniera occulta piattaforme multimediali in Siria (Middle East Eye, 2020)
Tunisia: Tunisi si oppone all’ipotesi di una soluzione militare per la Libia
Il 28 settembre il premier tunisino Hichem Mechichi ha confermato il rifiuto della Tunisia all’ipotesi di qualsiasi soluzione militare in Libia e di intervento nei suoi affari interni. Rivolgendosi ai capi delle missioni diplomatiche tunisine, ha ribadito che la soluzione per la Libia si basa sullo sforzo comune per una soluzione politica basata sul dialogo intra-libico sotto la supervisione delle Nazioni Unite.
Inoltre, in relazione agli accordi siglati dagli Emirati Arabi Uniti e dal Bahrein e sponsorizzati dagli Stati Uniti per stabilire relazioni diplomatiche con Israele, Mechichi ha ribadito la ferma posizione della Tunisia nel sostenere i diritti legittimi del popolo palestinese sulla base della “Arab Peace initiative” del 2002 (Thabeti, 2020).


Immigrazione e terrorismo: I legami tra flussi migratori e terrorismo di matrice jihadista – IL LIBRO

Esiste un legame tra l’immigrazione e il terrorismo? Tra gli immigrati si nascondono jihadisti pronti a colpire? Le reti criminali che gestiscono i traffici di esseri umani, di armi, petrolio e droga dalla Libia e dalla Tunisia sono legate ai gruppi terroristi?

Claudio Bertolotti, Direttore esecutivo dell’Osservatorio sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo (ReaCT), risponde a queste domande attraverso una disamina accurata e puntuale. L’immigrazione irregolare ha assunto una dimensione che ha numerose ripercussioni sulla stabilità nazionale e internazionale, costituendo oggi un fenomeno di grande rilevanza a livello umanitario e per la sicurezza dei paesi del Mediterraneo e dell’Europa in particolare. Questa situazione accende i riflettori sulla problematica dei canali irregolari dell’immigrazione: la complessa operazione di spostamento di vasti gruppi umani tra paesi richiede un livello di organizzazione che solo la criminalità organizzata, spesso in collaborazione con gruppi terroristi, può raggiungere.

Quello che i numeri ci dimostrano, e su cui occorre fare un ragionamento politico al fine della prevenzione, è che l’arrivo di grandi popolazioni di migranti, se non adeguatamente gestito, aumenta il rischio di attacchi terroristici nel breve periodo, da parte di immigrati di prima generazione, e, nel medio periodo, da parte di figli e nipoti di immigrati.

Questo libro, il cui studio preliminare è stato commissionato dal Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri e pubblicato in prima edizione dal Centro Militare di Studi Strategici (Ce.Mi.S.S.) del Ministero della Difesa, ricerca e valuta gli elementi a sostegno e a discarico del rischio che i flussi migratori irregolari attraverso il Mediterraneo siano esposti alla “contaminazione jihadista”.

L’immigrazione come veicolo per la diffusione del terrorismo?

La relazione tra immigrazione e terrorismo jihadista è stata ampiamente discussa a livello politico e istituzionale, evidenziando posizioni a favore e contrarie rispetto a un possibile legame tra i due fenomeni. In particolare, le analisi quantitative che analizzano la correlazione tra immigrazione e terrorismo, hanno messo in evidenza variabili in grado di influire su un aumento del rischio collegato al terrorismo, considerando aspetti economici, sociali e securitari.

Immigrazione e terrorismo. I legami tra flussi migratori e terrorismo di matrice jihadista

Titolo: Immigrazione e terrorismo. I legami tra flussi migratori e terrorismo di matrice jihadista
Autore: Claudio Bertolotti
Pubblicazione: Saggio/Manuale
Formato: Kindle e stampa (5×21, brossura), 186 pagine
Editore: START InSight
Anno di edizione: 2020 – seconda edizione aggiornata
Prezzo di copertina: Euro 28,00

LIBRO DISPONIBILE IN FORMATO STAMPA E KINDLE SU AMAZON.IT


La resilienza di Boko Haram e i limiti operativi della Multinational Joint Task Force

di Marco Cochi

articolo opriginale pubblicato sull’Osservatorio Strategico Ce.Mi.S.S. N.° 2/2020, scarica il pdf

Negli ultimi undici anni, il nord-est della Nigeria è stata caratterizzato da un numero impressionante di attacchi terroristici per mano della Jama’atu Ahlis Sunna Lidda’awati wal-Jihad (JAS)[1], un’organizzazione meglio nota come Boko Haram[2], che da quando venne fondata nel 2002 non è sempre stata terroristica.

Gli studiosi del gruppo estremista nigeriano rilevano, infatti, che a metà degli anni duemila Boko Haram perseguiva ancora scopi umanitari, concentrando la sua attività in tre dei sei Stati della Nigeria nord-orientale: Borno, Yobe e Adamawa. Lo prova anche il manifesto di Boko Haram intitolato: Hadhihi Aqidatuna wa Minhaj Da’awatuna[3], scritto in arabo dal suo fondatore e guida spirituale Ustaz Mohammed Yusuf, che richiama i fedeli a tornare alla pacifica età incontaminata dell’islam, in cui il Corano, la dottrina sunnita e gli hadith[4] costituiscono gli unici principi guida per i musulmani.

Tuttavia, i richiami di Yusuf all’età pacifica dell’Islam non sono stati seguiti dai suoi seguaci, visto che nel tempo Boko Haram è diventata una delle organizzazioni terroriste più letali al mondo, come è inequivocabilmente dimostrato dalle oltre 38.500 vittime che gli attacchi degli estremisti islamici hanno provocato, a partire dall’insurrezione armata del luglio 2009.

Da quel momento, il gruppo estremista ha fatto ricorso all’uso indiscriminato della violenza per imporre una variante della legge islamica molto più dura di quella adottata verso la fine degli anni novanta da una dozzina di stati del nord della Nigeria. Un’applicazione della sharia in netto contrasto con lo stato secolare esplicitamente proclamato dall’articolo 10 della Costituzione della Nigeria, che inizialmente ha portato i fondamentalisti nigeriani a prendere di mira le autorità e le istituzioni locali, senza risparmiare le élite musulmane tradizionali, che secondo gli estremisti sarebbero contigue con il governo di Abuja.

Tra il 2012 e il 2014, le occupazioni di città chiave situate sul confine nord-orientale con il Camerun, avevano consentito all’organizzazione di assumere il controllo di buona parte del territorio della Nigeria nord-orientale, fino a infiltrarsi nelle regioni più remote. Qui gli islamisti nigeriani sono riusciti a diffondere il loro messaggio più efficacemente del governo, ma ancor più attraverso la gestione di un sistema di welfare molto più efficiente di quello statale.

Il giuramento di fedeltà al leader dello Stato Islamico

La svolta all’interno dell’organizzazione si è registrata il 7 marzo 2015, quando Boko Haram ha giurato fedeltà al defunto califfo Abu Bakr al-Baghdadi, leader dello Stato Islamico. Poi, il 3 agosto 2016 il gruppo è stato oggetto di una scissione tra la fazione estremista dello storico leader Abubakar Shekau e quella di Abu Musab al-Barnawi, figlio del fondatore Ustaz Mohammed Yussuf, che è stato imposto alla guida del gruppo dai vertici del Califfato.

La scissione venne resa nota sul numero 41 di Al-Naba, una delle riviste telematiche pubblicate dallo Stato Islamico. Nel magazine di propaganda jihadista c’è un’intervista ad al-Barnawi in cui emergono le cause della frattura e viene alleggerita l’immagine di Boko Haram attraverso l’impegno di porre fine agli attacchi alle moschee e ai mercati frequentati dai musulmani. Shekau però non ha mai riconosciuto la nomina di al-Barnawi, criticandolo per non essere abbastanza radicale. Da quel momento Boko Haram si è diviso in due fazioni rivali: una minoritaria guidata da Shekau, che ha conservato il nome integrale del gruppo Jama’atu Ahlis Sunna Lidda’awati wal-Jihad (JAS), mentre l’altra ufficialmente affiliata allo Stato Islamico ha preso il nome di Provincia dell’Africa Occidentale dello Stato Islamico (ISWAP).

Quest’ultima fazione è stata ripetutamente segnata da contrasti interni che nell’agosto 2018 causarono l’eliminazione di due dei suoi massimi esponenti: Mamman Nur Alkali e Ali Gaga, uccisi dai loro stessi compagni perché incarnavano una linea relativamente moderata. Gli stessi contrasti che nel marzo 2019 attraverso un comunicato ripreso su Twitter, indussero la shura (consiglio esecutivo) dell’ISWAP a rendere noto di aver esautorato anche Abu Musab al-Barnawi e di averlo sostituito con Abu Abdullah Ibn Umar al-Barnawi, conosciuto anche come Ba Idrisa.

Una nomina decisa direttamente dai vertici dell’ISIS e riconosciuta da tutte le wilayat (provincie) dell’Africa occidentale e centrale. Nel febbraio 2020, però, Ba Idrisa è stato ucciso nell’ennesima faida interna insieme ad altri sostenitori della linea dura vicini allo Stato Islamico. Dopo l’eliminazione di Ba Idrisa, il nuovo wali (governatore) dell’ISWAP sarebbe Lawan Abubakar, nome di guerra del jihadista di etnia kanuri Ba Lawan.

Per individuare meglio l’entità della minaccia è importante operare una distinzione tra i due gruppi estremisti basata sul fatto che la fazione di Abubakar Shekau è regolata da meccanismi di leadership diversi da quelli dell’ISWAP. Meccanismi che hanno reso la guida del co-fondatore di Boko Haram più stabile e sicura rispetto a quella del gruppo rivale, facendolo diventare il leader jihadista più longevo a livello globale.

 

[1]    Tradotto dall’arabo: ‘Gruppo della Gente della Sunna per la propaganda religiosa e il jihad’

[2]    La locuzione Boko Haram deriva dalla lingua araba [يحظر التعليم الغربي] e significa “L’educazione occidentale è proibita”. Di conseguenza è harām tutto ciò che segua uno stile di vita occidentale e non a caso i musulmani del Nord della Nigeria hanno generalmente respinto l’educazione occidentale giudicandola come ilimin boko (‘falso insegnamento’)

[3]    Tradotto dall’arabo: ‘Questo è il nostro credo e il nostro metodo di predicazione’

[4]    In genere si tratta di un singolo aneddoto di alcune righe sulla vita del profeta Maometto, ma ha un significato molto più importante perché è parte costitutiva della cosiddetta Sunna, la seconda fonte della sharia dopo il Corano