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Nuovi procedimenti d’accusa e operazione anti-terrorismo in Svizzera

Nella rete sono finiti anche dei minorenni. Coinvolti due sostenitori del Califfato rientrati (da tempo) dalla Siria. La jihad non perde attrattiva.

Negli ultimi giorni i riflettori sono tornati ad accendersi sulle attività jihadiste dentro i confini della Confederazione; attività che consistono principalmente nel sostegno ad al-Qaeda, Stato Islamico (IS) e gruppi affini; diffusione di materiale di propaganda; reclutamento di nuove leve.

Il 25 ottobre il Ministero pubblico della Confederazione ha depositato un atto d’accusa nei confronti di due cittadini dal doppio passaporto: uno svizzero-italiano residente a Winterthur (Canton Zurigo) al quale viene contestato di aver combattuto in Siria con una formazione pro-IS e di aver poi, una volta rientrato, continuato a reclutare per lo Stato Islamico; e uno svizzero-macedone domiciliato a Frauenfeld (Canton Turgovia) che avrebbe tentato di unirsi al Califfato passando dai Balcani, senza però riuscirvi, e di aver in seguito reclutato a sua volta un altro simpatizzante con lo stesso obiettivo. Il primo procedimento penale, poi esteso anche al secondo imputato, era stato avviato nel 2015.

Il 29 ottobre in diverse località dei Cantoni di Zurigo, Berna e Sciaffusa, nell’ambito di un’imponente operazione anti-terrorismo sono state inoltre perquisite undici abitazioni private legate a un’indagine che coinvolge undici indagati per sospetta violazione degli articoli di legge che vietano i gruppi al-Qaida, Stato Islamico e affini e il sostegno o partecipazione a organizzazioni criminali: sei procedimenti penali riguardano individui adulti fra cui uno jihadista di ritorno, già condannato in precedenza per il suo sostegno all’ISIS. I restanti cinque imputati sono minorenni.

Non sono chiari eventuali collegamenti diretti tra i due filoni di inchiesta.

Come riporta il giornalista Kurt Pelda nel suo articolo per il quotidiano Tages-Anzeiger, l’indagato recidivo sarebbe un giovane di Winterthur partito per la Siria nel 2014 insieme alla sorella, all’epoca entrambi minorenni. Rientrati nel 2015, le condanne (per lui, una pena sospesa a 11 mesi) sono state pronunciate a febbraio 2019. L’estremista non avrebbe nel frattempo abbandonato la scena radicale.

Avrebbe intrattenuto dei legami, secondo quanto fa intendere Le Temps, con lo stesso imputato svizzero-italiano menzionato nel Comunicato del PM del 25 ottobre, protagonista di una cerchia salafita-jihadista che gravitava attorno alla controversa moschea an-Nur (sempre a Winterthur) di cui si sono spesso occupate le cronache elvetiche. La chiusura di quest’ultima (nel 2017), sottolinea Kurt Pelda, ha reso più difficile tenere sotto osservazione i simpatizzanti dello Stato Islamico. Altri luoghi di ritrovo e socializzazione per il gruppo sono stati una palestra di arti marziali e le attività di distribuzione pubblica e gratuita del Corano ad opera dell’organizzazione Lies! attiva soprattutto in Germania. Non è dato sapere se le inchieste fanno riferimento ad attività recenti.

Negli anni scorsi da Winterthur, per la Siria, sono partiti una dozzina di radicalizzati.

Sarebbe utile oggi guardare in modo costruttivo a pratiche e tentativi -anche fallimentari- dei paesi con maggiore esperienza nel settore, sia in materia di regime di detenzione che di de-radicalizzazione

I numeri svizzeri

I servizi informativi hanno recentemente indicato in 66 il numero delle persone considerate una minaccia per la sicurezza interna della Confederazione, a causa delle loro motivazioni terroristiche. Rispetto agli 80 soggetti del novembre 2018, la cifra è in discesa.

Dal 2012 ad oggi, 624 utenti sono entrati nel radar dei servizi per aver contribuito a diffondere via internet l’ideologia jihadista. Cifra in salita rispetto ai 606 del 2018.

92 le persone che avrebbero lasciato la Confederazione a partire dal 2001, per raggiungere vari fronti della jihad in Medio Oriente, Africa, Asia; di queste, una trentina sarebbe deceduta mentre 16 sono rientrate. Chi ritorna -spiega un reportage del programma Falò (RSI) che ricostruisce le storie di alcuni combattenti- diventa oggetto di procedimento penale. Ma un solo processo sarebbe arrivato a conclusione. Gli altri individui sarebbero rimasti finora a piede libero. 70 gli incarti aperti presso il Tribunale Penale Federale (Falò). 31 foreign fighters jihadisti sono in possesso della nazionalità elvetica, fra cui 18 con due passaporti. Lo scorso mese di settembre, le autorità hanno disposto la revoca della nazionalità a un cittadino svizzero-turco condannato per propaganda e reclutamento, mentre un secondo caso ha riguardato una cittadina svizzero-tunisina che si trova in Siria e detiene anche la nazionalità francese. Circa 20 cittadini svizzeri (uomini, donne e bambini) si troverebbero attualmente in territorio iracheno e siriano.

Svizzera ed Europa: scialuppe diverse nella stessa barca. Appunti a margine.   

  • Per varie ragioni, i tempi della giustizia sono lunghi (non solo in Svizzera); di conseguenza, con le incognite che gravano sul reinserimento sociale degli estremisti violenti dopo la pena -incluso il pericolo di recidiva- ci confronteremo soprattutto negli anni a venire. Ma la questione è pressante: la radicalizzazione nelle prigioni europee procede rapida mentre centinaia di detenuti a rischio fra cui numerosi terroristi, verranno rilasciati a breve.
  • In vista anche di un potenziale rientro dei foreign fighters e delle loro famiglie, che Stati Uniti e Iraq non intendono mantenere all’infinito in Medioriente, è urgente concentrare l’attenzione sull’ecosistema carcerario e sullo sviluppo di programmi di disimpegno dalla violenza, anche in ottica preventiva. Non esistono soluzioni su misura né garanzie di successo ma sarebbe utile, oggi, guardare in modo costruttivo a pratiche e tentativi -anche fallimentari- dei paesi con maggiore esperienza nel settore, sia in materia di regime di detenzione (valutando pro e contro, ad esempio, di isolamento oppure socializzazione dei condannati, in base ai casi individuali) che di de-radicalizzazione.
  • Il Ministero Pubblico della Confederazione indica come l’accusato svizzero-italiano avrebbe sfruttato ai fini del reclutamento, la propria reputazione di reduce jihadista e figura di spicco del salafismo svizzero, curando anche i contatti con altri reclutatori ISIS (condannati) in Europa. Si tratta del pericolo e del timore principale legato al rimpatrio dei foreign fighters. Ma sono spesso anche gli stessi radicalizzati dentro i confini nazionali, coloro che non hanno mai viaggiato, a darsi da fare per trovare il modo di comunicare con figure di rilievo del movimento jihadista globale.
  • Il propagandista e/o reclutatore di combattenti per la jihad all’estero può non rappresentare un rischio diretto per la sicurezza interna di un paese ma è fondamentale nel garantire la diffusione dell’ideologia nonché la sopravvivenza e rafforzamento delle reti internazionali. Ruoli che non vanno sottovalutati, anche mentre si attende (a lungo) un processo.

Camera dei Deputati – Analisi degli attacchi terroristici in Europa tra “blocco funzionale” e spinta all’emulazione

La relazione alla Camera dei Deputati di Claudio Bertolotti, Direttore esecutivo dell’Osservatorio sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo – ReaCT e Direttore di START InSight, in occasione del convegno “Il futuro del terrorismo di matrice jihadista”, martedì 29 ottobre (VIDEO).

Il successo del terrorismo: “blocco funzionale” e spinta all’emulazione

Il terrorismo non è il problema. Il terrorismo è la manifestazione violenta di un problema oggettivo che è la diffusione dell’ideologia jihadista; un’ideologia che si muove su un piano comunicativo estremamente efficace e che coinvolge un numero importante di soggetti che possono rappresentare una minaccia seria e concreta alla sicurezza.

L’ideologia jihadista alimenta il fenomeno della radicalizzazione. È dunque sull’ideologia (anche attraverso la contro-narrativa) che devono essere concentrati gli sforzi maggiori, così da contenerne o sconfiggerne le manifestazioni violente.

La nostra generazione è testimone di un fenomeno che si è imposto mediaticamente, ancor più che su quei campi di battaglia che dall’Afghanistan all’Iraq alla Siria sono giunti sino alle porte di casa, in Nord Africa e poi nel cuore stesso dell’Europa con gli attacchi principali di Parigi, Bruxelles, Londra, Berlino, ecc…. e dei tantissimi attacchi secondari a bassa intensità che portano a un totale di 116 azioni violente “in nome del jihad” registrate dal 2014 a oggi.

Parliamo certamente di terroristi che hanno importato la violenza in Europa, ma parliamo di un numero ben superiore di individui che invece, nati e cresciuti in Europa, sono cittadini europei o comunque regolarmente residenti in Europa, e dall’interno hanno colpito. Parliamo di soggetti prevalentemente immigrati regolari o di seconda o terza generazione appartenenti, prevalentemente, alle comunità Marocchina, Algerina, Tunisina – con un’età mediana di 22 anni (44 percento di età inferiore ai 26 anni). Solo una minima parte sono “irregolarmente entrati all’interno dell’Unione Europea: l’11 percento del totale.

In tale scenario, e in particolare nel momento in cui lo Stato islamico nel 2014 fa appello per entrare a far parte del proto-stato teocratico e sunnita che si impone in Siria e Iraq, e dunque a trasferirsi, dall’Europa rispondono in migliaia all’appello. E l’Europa diviene dunque esportatrice di terrorismo, con oltre 5.000 volontari che vanno a combattere in Siria.

Ma quel terrorismo che in Europa si impone, violentemente nelle nostre quotidianità, lo fa con una violenza micidiale e con numeri ben superiori, per quanto limitati, rispetto all’attenzione mediatica sugli stessi. Parliamo di 116 azioni, portate a termine in Europa dal 2014 a oggi da 157 terroristi (dei quali 56 sono deceduti) e che hanno provocato la morte di 388 persone e il ferimento di altre 2353: l’ultimo il 3 ottobre in Francia, a Parigi.

Ma soltanto 11 del totale sono attacchi terroristici ad alta intensità (con un numero di vittime superiore a 20); gli altri sono eventi che classifichiamo come eventi a media intensità con un numero di vittime compreso tra 3 e 20 (il 36 percento del totale,) e a bassa intensità, meno di due vittime (il 56 percento – circa 6 su 10).

Ma al di là del numero dei morti e dei feriti, o degli attentatori che effettivamente hanno portato a compimento le azioni terroristiche, quali i risultati effettivi del terrorismo jihadista in Europa all’epoca dello Stato islamico che fu di Abu Bakr al Baghdadi? Attraverso l’analisi del dataset sul terrorismo di START InSight, ci concentreremo su questo aspetto, tra i tanti interessanti: quello del terrorismo è successo o insuccesso?

il successo degli attacchi terroristici: ottenuto il “blocco funzionale” nel 74 percento dei casi

In primo luogo, gli anni di maggior espansione territoriale e mediatica dello Stato islamico sono stati quelli in cui vi sono i principali attacchi terroristici in Europa: 2016-2017 e 2018. Nel 2017 si concentrano gli attacchi che percentualmente hanno maggior successo (4 su 10 provocano almeno una morte).

Ma nel complesso, guardando all’intero periodo, il 24 percento sono attacchi fallimentari (nessuna vittima, solo feriti o nulla); il 34 percento ottengono “successo tattico” (almeno una vittima deceduta); il 18 percento ottengono successo strategico (blocco traffico aereo, mobilitazione delle Forze armate, coinvolgimento opinione pubblica a livello internazionale).

Ma un aspetto ancora più importante, che in genere non viene riconosciuto, sia sul piano divulgativo-informativo, sia su quello tecnico-accademico è quello che abbiamo voluto chiamare “blocco funzionale”: il più importante dei risultati ottenuti dai terroristi sul moderno campo di battaglia europeo.

All’interno di questa categoria sono inseriti tutti quegli eventi che hanno influito in maniera significativa sul livello operativo delle forze di sicurezza, pensiamo alla mobilitazione militare conseguente all’attacco parigino del Bataclan, ma anche sulla limitazione o lo svolgimento regolare delle normali attività quotidiane degli apparati pubblici, o di mobilità urbana a danno delle comunità colpite. Si tratta di ripercussioni dirette sulle attività delle forze di sicurezza e sulle comunità in grado di agire sulla libertà di accesso a determinate aree, imponendo tempistiche dilatate e, ancora, riducendo in maniera efficace il vantaggio tecnologico e il potenziale operativo.

I risultati sono tangibili e, a livello operativo, gli attacchi hanno ottenuto dal 2004 a oggi, un successo relativo (il blocco funzionale) in media nel 74 percento dei casi (84 percento nel 2017). Un risultato impressionante considerando le limitate risorse messe in campo dai gruppi, o dai singoli terroristi. E sono danni, quelli provocati dagli attacchi terroristici, che si traducono in costi elevati per la collettività.

un terzo degli attacchi terroristici sono “emulativi”

Un altro aspetto interessante è il ruolo di “attivatore” giocato dagli eventi ad alta intensità che, in relazione al numero di vittime provocato, stimola soggetti autonomi ad agire con atti “EMULATIVI”. Guardando all’elenco degli attacchi ad alta e media intensità (quelli che cioè provocano un maggiore numero di vittime) ci rendiamo subito conto di una concentrazione di eventi a bassa intensità entro gli otto giorni successivi ai principali eventi (quelli che ottengono maggiore attenzione mediatica): il 27percento.

Questi eventi, secondari, spesso fallimentari, raramente ottengono l’attenzione dei media che vada oltre il livello locale ma suggeriscono come il coinvolgimento di soggetti “autonomi” avvenga attraverso lo stimolo emotivo alimentato dall’attenzione mediatica e dalla narrativa utilizzata dai gruppi terroristi attraverso i social.

Questo, in estrema sintesi, può essere letto sul terrorismo in Europa, un fenomeno che, a livello di manifestazione si è significativamente ridotto, ma che sul piano potenziale continua ad essere una grandissima sfida su cui è necessario agire con crescente impegno sul piano della prevenzione. Tanto più che con la morte del leader jihadista, Abu Bakr al-Baghdadi, la struttura multipla dello Stato Islamico gli sopravvive.


RaiNews24. Lo Stato Islamico dopo al-Baghdadi e la situazione in Siria

Il 26 ottobre 2019 a Idlib in Siria il leader dello Stato Islamico Abu Bakr al-Baghdadi viene ucciso in un raid delle forze speciali americane. Il Direttore di START InSight Claudio Bertolotti nello studio di ‘Cronache dal mondo‘ – RaiNews24 commenta la situazione. Cliccare direttamente sull’immagine per avviare il video.


Dopo al-Baghdadi. Considerazioni e dibattito a MODEM (RSI)

di Claudio Bertolotti

La morte di Abu Bakr al-Baghdadi segna il passaggio formale dello Stato Islamico (IS) alla sua natura insurrezionale originaria. Il Califfato è ora a tutti gli effetti un fenomeno che prescinde dal controllo di un territorio. Il cambio di passo -una mossa preventiva nell’eventualità di dover garantire la sopravvivenza del gruppo- era di fatto già stato avviato nel 2015 dall’allora stratega dell’IS al-Adnani; oggi arriva a compimento con un atto simbolico che sarà presentato dalla narrativa jihadista come un’azione di martirio (istishadi) poiché, facendosi esplodere nel tentativo di colpire i militari statunitensi, al-Baghdadi diviene di diritto, nell’interpretazione jihadista, uno shahid, un martire. Questo non va assolutamente sottovalutato.

Il Califfato è ora a tutti gli effetti un fenomeno che prescinde dal controllo di un territorio.

La narrativa è una chiave di lettura imprescindibile per comprendere la sopravvivenza e il futuro dello Stato Islamico.
Più in generale, cosa rappresenta la morte di al-Baghdadi? Quali paragoni si possono tracciare con quella di Osama Bin Laden? Che dire del modo con cui è stata comunicata da Trump? Di questi aspetti si è discusso nella trasmissione MODEM della Radiotelevisione Svizzera di Lingua Italiana intitolata ‘Morte di un Califfo‘ con
Roberto Antonini, giornalista e inviato in Iraq e Siria (RSI); Claudio Bertolotti, analista strategico dell’ISPI (Milano) e direttore di START InSight (Lugano) e Renzo Guolo, sociologo dell’Università di Padova. Ha condotto in studio Giuseppe Bucci. (Copyright RSI)

Facendosi esplodere nel tentativo di colpire i militari statunitensi, al-Baghdadi diviene di diritto, nell’interpretazione jihadista, uno shahid, un martire.

Al tempo stesso, segna un inevitabile passaggio generazionale, così come lo fu la nomina di Abu Bakr al-Baghdadi a capo dello Stato islamico d’Iraq dopo la morte di Omar al-Baghdadi.  Se guardiamo solo allo Stato islamico, dobbiamo aspettarci la nomina di un nuovo Califfo, in un processo naturale di successione; e le voci più recenti, non confermate, suggerirebbero in Abdullah Qardash (un ex-militare dell’esercito di Saddam Hussein, conosciuto come “il professore”) il successore prescelto già da agosto.

Nel complesso della più ampia galassia jihadista alla ricerca di un leader, oggi scorgiamo un doppio fronte con, da una parte, al-Qa’ida  che gioisce per l’uscita di scena di al-Baghdadi; dall’altra, i reduci e gli orfani di quello che fu lo Stato Islamico territoriale. Un nuovo grande leader che ambisca ad unire i fronti jihadisti deve ancora emergere e nella situazione attuale, potrebbe anche pensare di sfruttare i gruppi terroristi locali che già fanno parte della galassia jihadista di cui l’IS è stato elemento propulsore ed aggregante, dall’Asia (Afghanistan, Pakistan) al Medioriente, alla Penisola Arabica e al Nord Africa.

La vera forza dello Stato islamico è l’aver capito già nel 2015 che la sopravvivenza territoriale sarebbe stata impossibile.

Per ciò che concerne il dibattito sul futuro del movimento, va posto in evidenza come, storicamente, la morte dei leader jihadisti non abbia mai determinato la fine dei gruppi di cui erano a capo, determinandone anzi una riorganizzazione e fornendo una spinta propulsiva, in tempi e con modalità differenti. Basti guardare ad al-Qa’ida: più che la morte di Osama bin Laden, il suo ridimensionamento fu conseguenza dell’emergere dello Stato Islamico. Ma al-Qa’ida non è mai scomparsa, come dimostra il suo recente ritorno sulla scena internazionale. E, ancora, l’uccisione di al-Zarkawi in Iraq, leader carismatico e di successo, ha semplicemente aperto all’espansione del modello califfale di al-Baghdadi, che nasce dalla rottura proprio con al-Qa’ida.

Oggi la forte identità dell’IS, insieme alla sua capacità di mobilitare simpatizzanti, sostenitori e “combattenti”, sono aspetti ancora sottostimati. La vera forza dello Stato islamico è l’aver capito già nel 2015 che la sopravvivenza territoriale sarebbe stata impossibile. Tale consapevolezza ha determinato la decisione di creare wilayat (province) geograficamente anche molto lontane fra loro e dalla stessa area siro-irachena -dall’Afghanistan alla Libia- sfruttando la tecnica del franchising, che ha portato ad una suddivisione -ma anche moltiplicazione- dello Stato Islamico in Stati islamici più piccoli ma uniti dalla stessa visione ideologica del mondo e della lotta necessaria a imporre la loro interpretazione dell’Islam, attraverso il conflitto sui campi di battaglia. Ma l’essenza territoriale è da tempo ormai secondaria e accessoria.


IL FUTURO DEL TERRORISMO JIHADISTA – CONVEGNO CON EUROPA ATLANTICA A ROMA

Il futuro del terrorismo di matrice jihadista.
Evoluzione della minaccia, strumenti di contrasto e strategie di prevenzione

Se ne parla martedì 29 ottobre alle ore 15.00 presso la Sala della Regina (Palazzo Montecitorio – Piazza Montecitorio). Iscrizione obbligatoria.

Per confermare la partecipazione: europa.atlantica@gmail.com entro il 27 ottobre 2019

Osservatorio ReaCT – in collaborazione con Europa Atlantica , Ce.S.I. , Formiche

Negli ultimi anni, anche a seguito dei numerosi attacchi terroristici effettuati in Europa e per effetto degli orientamenti e delle decisioni assunte in materia di contrasto e prevenzione del terrorismo in sede europea, l’Italia ha notevolmente rinnovato le proprie normative nazionali in materia di antiterrorismo.
A partire del 2015 sono state introdotte norme più severe e restrittive per la repressione e il contrasto della minaccia terroristica, in particolare in riferimento a quella di matrice jihadista. Nello stesso periodo è stata avviata una discussione approfondita rispetto alla necessità, palesata non solo dagli addetti ai lavori, di dotare il nostro paese anche di una normativa nazionale di riferimento che potesse introdurre un sistema di prevenzione della radicalizzazione violenta, anche di matrice jihadista. A questa esigenza ha cercato di dare una prima risposta la proposta di legge Dambruoso-Manciulli, approvata nel solo ramo parlamentare della Camera nel 2017.
Il convegno in programma promosso dall’Associazione culturale Europa Atlantica in collaborazione con il Centro Studi Internazionali, Formiche e l’Osservatorio ReaCT, si pone l’obiettivo di aggiornare la riflessione sul tema del futuro della minaccia terroristica di matrice jihadista, dei possibili scenari evolutivi a livello europeo e internazionale e del ruolo che le organizzazioni jihadiste potranno svolgere nell’area Mediterranea e Mediorientale, anche a seguito delle recenti crisi in Siria e Iraq. Inoltre sarà occasione per una riflessione sul ruolo dell’Italia nel contrasto globale a questa minaccia e anche sul lavoro di contrasto a livello nazionale, in particolare attraverso un bilancio e un’analisi degli strumenti, non solo normativi, a disposizione del nostro sistema nazionale di sicurezza. Infine, il convegno si propone di rilanciare il confronto sulla necessità di dotare il nostro paese di norme di prevenzione della radicalizzazione violenta.

Informazioni per i partecipanti: accesso alla sala dalle ore 14.30 fino a esaurimento posti disponibili

PROGRAMMA DEI LAVORI

ORE 15.00
INTERVENTO INTRODUTTIVO – ON. ALBERTO PAGANI

ORE 15.15
PRIMA SESSIONE: “EVOLUZIONE DELLA MINACCIA JIHADISTA: IL CONTESTO INTERNAZIONALE, IL RUOLO DELL’ITALIA”

Claudio Bertolotti – Direttore Osservatorio ReaCT
Matteo Bressan – Direttore OSSMED LUMSA
Luciano Portolano*– Gen. C.A. Comandante COI
Coordina: Enrico Casini – Direttore di Europa Atlantica

ORE 16.00
SECONDA SESSIONE: “LA MINACCIA TERRORISTICA E IL SISTEMA ITALIANO DI CONTRASTO”

Lorenzo Vidino – Direttore programma sull’estremismo G. Washington University
Claudio Galzerano – Direttore del servizio di contrasto al terrorismo esterno, Polizia di Stato
Marco Rosi – Comandante Reparto Antiterrorismo ROS, Carabinieri
Cosimo Di Gesù – Gen.B. Capo II Reparto comando generale, Guardia di Finanza
Coordina: Gabriele Iacovino – Direttore del Ce.S.I.

ORE 17.00
TAVOLA ROTONDA: “PREVENZIONE DELLA RADICALIZZAZIONE VIOLENTA. GLI STRUMENTI LEGISLATIVI NECESSARI ALL’ITALIA”

Andrea Manciulli – Presidente di Europa Atlantica
Nicola Latorre –Già Presidente Commissione Difesa del Senato
Andrea Margelletti – Presidente del Ce.S.I.
Stefano Dambruoso – Magistrato
Raffaele Volpi – Presidente del Copasir
Coordina: Michele Pierri – Formiche

ORE 18.00 – CONCLUSIONI DEL CONVEGNO

Lorenzo Guerini* – Ministro della Difesa

*Invitato, in attesa di conferma


Le spese militari nelle aree del Maghreb e del Mashreq: diverse tendenze

di Claudio Bertolotti

articolo originale pubblicato su Osservatorio Strategico Ce.Mi.S.S. 3/2019

Come riportato recentemente  dallo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), il totale della spesa militare mondiale è salito a 1.822 miliardi di dollari nel 2018, con un aumento del 2,6 percento rispetto al 2017: la spesa globale è ora del 76 percento superiore al minimo del periodo post-guerra fredda registrato nel 1998. I cinque principali investitori nel settore militare nel 2018 sono stati gli Stati Uniti, la Cina, l’Arabia Saudita, l’India e la Francia, che insieme coprono il 60 percento della spesa militare globale.
Per quanto riguarda i paesi del Maghreb, in generale, possiamo osservare come le spese militari in Nord Africa siano diminuite per il quarto anno consecutivo, con importanti riduzioni registrate dall’Algeria. Nell’Africa sub-sahariana, la spesa militare è stata di 18,4 miliardi di dollari nel 2018, con un calo dell’11% dal 2017 (inferiore del 21% rispetto al 2009). Una forte riduzione che, per la prima volta, ha portato il Nord Africa (con solo quattro paesi) a spendere più dell’Africa sub-sahariana (con 45 paesi).
Le spese militari degli stati nel Mashreq, per i quali sono disponibili dati, sono diminuite dell’1,9% nel 2018. Tre dei 10 paesi con il più alto carico militare (spesa militare in proporzione al PIL) nel mondo nel 2018 sono nel Mashreq: Libano (5,0%), Giordania (4,7%) e Israele (4,4%).
Vediamo i quattro casi maggiormente rappresentativi delle due aree.

Algeria

Nonostante il peggioramento della crisi politica e il crescente disagio sociale, l’Algeria ha confermato gli investimenti in armamenti, riducendone leggermente l’importo rispetto all’anno precedente. Le spese militari in Algeria sono diminuite a 9,46 miliardi di dollari nel 2018 da 10,07 miliardi di dollari nel 2017 (un calo del 5,5% rispetto al 2017, in linea con una tendenza al ribasso a livello continentale). Le spese militari in Algeria sono state in media di 2,83 miliardi di dollari dal 1969 al 2018, raggiungendo un massimo storico di 10,64 miliardi di dollari nel 2016 e un minimo record di 217 milioni di dollari nel 1972 . Rispetto al prodotto interno lordo (PIL) nazionale, gli investimenti militari algerini nel 2018 ammontano al 5,3% (era del 6% nel 2017). Con un totale di 9,46 miliardi di dollari nel 2018, l’Algeria ha avuto di gran lunga la spesa militare più elevata in Africa. Mentre in termini nominali le spese militari dell’Algeria sono rimaste invariate dal 2016, l’inflazione ha però portato le spese militari a una diminuzione in termini reali del 6,1% tra il 2017 e il 2018. L’Algeria, inoltre, è tra i dieci principali clienti della Russia in termini di vendite militari.

Egitto

Le spese militari in Egitto sono scese a 2,56 miliardi di dollari nel 2018 dai 2,76 miliardi di dollari del 2017. Le spese militari in Egitto sono state in media di 4,394 miliardi di dollari dal 1962 al 2017, raggiungendo un massimo storico di 7,047 miliardi di dollari nel 1977 e un minimo record di 1,526 miliardi di dollari nel 1962 . Rispetto al PIL nazionale, gli investimenti militari ammontano all’1,2% nel 2018 (era dell’1,4% nel 2017): un dato in linea con la tendenza storica caratterizzata da una progressiva riduzione delle spese militari, come percentuale del PIL, contraddistinta da una diminuzione del 2% tra il 2003 e 2018. L’Egitto ha tradizionalmente perseguito un ruolo di leadership nella regione, ma ha perso molta influenza negli ultimi decenni a favore dei paesi del Golfo e del Levante . Nel complesso, la recente riorganizzazione del budget e delle risorse militari egiziane, deve essere letta come un mezzo per bilanciarne la debolezza economica attraverso l’abilità militare, anche al fine di evitare la dipendenza dalla “generosità” dei più ricchi stati arabi, in particolare l’Arabia Saudita .

Israele

Le spese militari israeliane nel 2018 rimangono in linea con quelle dell’anno precedente, con un leggero aumento a 15,690 miliardi di dollari, rispetto ai 15,582 miliardi di dollari nel 2017. Le spese militari sono state in media di 11,06 miliardi di dollari dal 1952 al 2018, raggiungendo il massimo storico di 18,27 miliardi di dollari nel 1991 e un minimo record di 358 milioni di dollari nel 1953 . Rispetto al PIL nazionale gli investimenti militari ammontano al 4,4% (era del 4,3% nel 2017): in linea con una tendenza storica caratterizzata da una progressiva riduzione delle spese militari, come percentuale del PIL, contraddistinta da una diminuzione del 5,8% tra il 2009 e 2018. Un anno fa, ad agosto del 2018, il primo ministro Benjamin Netanyahu presentava al governo il suo “Concetto di sicurezza 2030”, caratterizzato da un aumento del budget della difesa per i prossimi anni in termini di milioni di dollari destinati alla spesa militare . Secondo Netanyahu, l’obiettivo è un bilancio della difesa di almeno il 6% del PIL, al fine di rafforzare le capacità offensive di Israele, tra cui la capacità di cyber-attacco, il potenziamento dei sistemi di difesa antimissile, le misure di protezione sul fronte interno e il completamento delle barriere di sicurezza sulle frontiere . Inoltre, è bene evidenziare che le esportazioni militari di Israele sono cresciute del 40% nel 2017, portando a 9,2 miliardi di dollari i contratti della Difesa, e segnando per il terzo anno consecutivo un aumento delle esportazioni nel settore della Difesa . Nel 2017, le società israeliane hanno esportato sistemi missilistici (17%) e sistemi di difesa aerea (3%), sistemi di comunicazione (9%), osservazione e ottica (8%), UAV (2%), sistemi marittimi (1%), satelliti e spazio (1%). La più grande distribuzione delle esportazioni israeliane di difesa è rivolta all’Asia del Pacifico, con il 58%, seguita dall’Europa (21%), Nord America (14%), Africa (5%) e America Latina (2%) .

Libano

Le spese militari del Libano sono aumentate a 2,61 miliardi di dollari nel 2018, rispetto ai 2,44 miliardi di dollari nel 2017. Una media 1,6 miliardi di dollari dal 1980 al 2018, con picco massimo di 2,69 miliardi di dollari nel 2016 e un record minimo di 265 milioni nel 1988 . Rispetto al PIL nazionale, gli investimenti militari ammontano al 5% (era del 4,6% nel 2017 e del 5,2% nel 2016): in linea con la tendenza registrata negli anni precedenti, basata su importanti investimenti in spese militari in termini percentuali di PIL.


Terrorismo: una risposta alla sfida dei droni

di Ginevra Fontana, Osservatorio ReaCT

Articolo originale pubblicato su Osservatorio Strategico Ce.Mi.S.S. 4/2019

Comunemente chiamati “droni”, gli aeromobili a pilotaggio remoto (APR, ai quali ci si riferisce anche con gli acronimi UAV, RPA o UAS) hanno visto un incremento esponenziale delle vendite negli ultimi anni[1]. La tecnologia degli APR per fotografia e videografia di piccole dimensioni[2] si è evoluta a tal punto da offrire prodotti accessibili al consumatore medio, con prezzi simili a fotocamere digitali con caratteristiche qualitative praticamente identiche[3]. Rappresentano dunque un interessante caso di studio, includendo già nella loro forma originale un sistema di cattura immagine relativamente avanzato e avendo una capacità di volo tale da sopportare un carico pagante (payload) maggiore rispetto a quello che trasportano ad impostazioni di fabbrica, il che permette migliori stabilità e manovrabilità.

Già senza subire alcuna manomissione, possono essere utilizzati per violare la privacy e/o infrangere la normativa sulle zone non sorvolabili. Negli USA è sorto il problema dell’individuazione dei colpevoli di anche semplici infrazioni della legislazione sul volo[4]; mentre in Europa, i casi dei droni sugli aeroporti inglesi di Gatwick e Heathrow hanno evidenziato il potenziale di queste tecnologie nel creare disordine e disagi[5].

I sistemi di geo-fencing[6] di cui questi apparecchi sono dotati risultano fallibili. Il processo per rimuovere il GPS è abbastanza semplice – il drone viene poi manovrato basandosi solo su ciò che il sistema di raccolta immagini integrato trasmette. Anche il software appare disattivabile scaricando programmi dal web[7] o, in alcuni casi, risulta virtualmente inesistente[8].

l’acquisto sul mercato online è semplice. Hanno dimensioni e volano senza attirare l’attenzione dei radar né degli scudi protettivi, difficili da vedere. È facile manometterli e possono essere armati in diverse maniere

Nel teatro operativo siro-iracheno, i primi report sull’uso di ‘droni’ o ‘droni armati’ da parte di ISIS[9] risalgono al 2014 ed includono lo spionaggio dei movimenti delle linee nemiche curde e statunitensi nelle battaglie tra il 2014 e il 2017 in Iraq, il rilascio di esplosivi o l’uso di ‘droni kamikaze’[10]. Molte sono le ragioni che hanno consentito ad ISIS di includerli nel proprio arsenale: l’acquisto anche per prodotti di seconda mano sul mercato online è semplice. Hanno dimensioni e volano ad altezze tali da non attirare l’attenzione dei radar né degli scudi protettivi, allo stesso tempo essendo difficili da vedere o engage dal personale a terra[11]. È facile manometterli e possono essere armati in diverse maniere. Da ultimo, servono il doppio scopo di offrire un’arma e al contempo le immagini delle loro attività: i video possono essere usati per propaganda, come è stato il caso già nel tardo 2017[12].

Questa tipologia di APR ha dunque il potenziale per divenire una seria problematica di sicurezza nazionale. Il ruolo della Difesa assurge a fondamentale, soprattutto nell’identificazioni di possibili soluzioni e/o risposte a breve, medio e lungo termine, che garantiscano la sicurezza della popolazione civile in patria. Una risposta concertata tra Forze Armate e Forze dell’Ordine appare auspicabile[13].

In prima analisi, sorge il problema dell’individuazione dei potenziali obiettivi sensibili, più difficili da determinare rispetto alle infrastrutture critiche[14]. Il rischio sarebbe quello di dover ‘coprire’ con sistemi anti-drone l’intero territorio nazionale – un obiettivo, al momento, irraggiungibile per tempistiche, costi e livello della tecnologia attuale.

Sorge dunque la necessità di sviluppare un sistema integrato di search, find and ID totalmente automatizzato. Due le motivazioni: le tecnologie attualmente disponibili sul mercato non presentano un rapporto costi-benefici soddisfacente, considerato l’investimento necessario ad acquisirle; in secondo luogo, un sistema fully automated, avendo la capacità di resistere alla saturazione, esenterebbe dal mantenimento del man in the loop[15], in previsione di un futuro in cui gli attacchi possano essere condotti da swarms[16]. Attenzione particolare andrebbe dunque posta nei confronti della tempestività di reazione ed intervento, che si lega alla questione dell’engagement.

Il pericolo deriva anche dal rischio di un drone armato balisticamente e/o con esplosivo, o minaccia CBRN

L’obiettivo a lungo termine dovrebbe presupporre lo sviluppo di sistemi che possano agire sugli algoritmi di controllo al fine di “rubare” il drone – il che permetterebbe di farlo atterrare in una zona sicura. Il pericolo infatti non deriva solo dal rischio di un drone armato balisticamente e/o con esplosivo, ma anche CBRN[17]. Si necessita dunque di un protocollo che preveda una zona di quarantena, nella prospettiva di salvaguardare non solo la popolazione civile, ma anche il personale specializzato addetto.

Essendo comunque questo un obiettivo non raggiungibile nel breve periodo, va effettuata un’analisi dei costi/benefici relativi alle attuali possibilità di engagement. Nella conduzione di tale analisi, rimangono sempre da ricordare i problemi relativi alla tipologia di comando del drone (pilotato a distanza o con route preimpostata) e alla tipologia di armamento (il rilascio della carica esplosiva/CBRN avviene con comando manuale del pilota, o quando il drone si trova su determinate coordinate, o con timer).

I possibili outcome sono sostanzialmente quattro. Perso il segnale con il telecomando, il drone può rimanere in fase di stallo (frozen) a mezz’aria, fare ritorno al punto in cui si trova il telecomando, o atterrare. In assenza di un sistema fail-safe[18], potrebbe schiantarsi al suolo[19]: in questo caso, se dotato di carica esplosiva, potrebbe detonare; se armato con cariche CBRN, queste nell’impatto potrebbero contaminare l’area.

Una prima opzione di tecnologia anti-drone riguarderebbe l’impiego di jammer, traslando il loro utilizzo dal teatro operativo come counter-IED system[20]. Il loro impatto su tecnologie e infrastrutture civili se utilizzate in territorio urbano rimane da valutare caso per caso[21]. Considerando le relativamente brevi distanza e durata di volo di droni con potenziale malevolo, l’assenza di un sistema jammer in loco, mobile[22] o fisso, comporterebbe un mancato engagement. I sistemi fissi in ambienti urbani possono però presentare problematiche riguardanti il rumore di sottofondo.

Una seconda ipotesi sarebbe l’utilizzo di armi convenzionali balistiche allo scopo di abbattere il drone, o eventualmente armate con proiettili a rete[23]. Questa opzione andrebbe in realtà considerata solo come una last resort, per le motivazioni riguardanti la tipologia di armamento riportate sopra. Indubbio è comunque il rischio per la popolazione civile, nel caso la minaccia si materializzasse in luoghi affollati.

Una terza opzione sarebbe l’uso di rapaci. La reattività di questi animali e il loro impatto economico li rendono una competitiva soluzione a breve termine. Un nucleo di falconeria è stimato ad un costo massimo di 50.000€ – ciò significa che, con un budget di tre milioni[24], si potrebbero installare circa sessanta nuclei di falconeria. Il costo per il mantenimento di un singolo nucleo non supererebbe le poche decine di migliaia di euro all’anno[25].

Una quarta opzione riguarderebbe le armi ad emissione di onde radio, tra le quali un sistema di manifattura americana: nonostante le specifiche siano interessanti, ricade nella categoria necessitante l’autorizzazione della Federal Communications Commission per essere venduto o affittato ad utilizzatori non-federali[26].

Infine, interesse crescente stanno acquisendo le armi ad energia diretta – come il dispositivo Counter Unmanned Aerial System (C-UAS) messo a disposizione dei fucilieri del 16° Stormo dell’Aeronautica Militare durante la visita del Presidente russo Vladimir Putin a Roma nel luglio 2019: si tratta di un “sistema radar di rilevamento munito di dispositivi e ottiche diurne e notturne per l’interdizione elettronica del volo”[27].

nel momento in cui l’idea per l’utilizzo di un APR viene messa in circolo, la minaccia diventa reale

Sul breve termine, appare come una soluzione percorribile la costituzione di un progetto pilota che utilizzi un nucleo di falconeria al fine di monitorare situazioni eccezionali che presentano un’alta concentrazione di persone, ed eventualmente intervenire in caso di necessità, quali per esempio la S. Messa domenicale in Vaticano o le future Olimpiadi invernali di Milano-Cortina 2026.

Andrebbe inoltre accentuato il lavoro di scambio di informazioni tra Forze Armate, intelligence e Forze dell’Ordine, con l’obiettivo di prevedere possibili trend basandosi sulle manomissioni definite come “apportabili” in rete da hobbisti, appassionati e/o attori malintenzionati. Sarebbe infatti da evitare il ragionamento per il quale una possibile manomissione, non risultando funzionante, possa essere scartata dall’elenco delle possibili minacce: nel momento in cui l’idea per l’utilizzo di un APR viene messa in circolo, essa andrebbe considerata come attuabile, nell’immediato o in un più distante futuro.

 

NOTE

[1] European Commission (2014), “Remotely Piloted Aviation Systems (RPAs) – Frequently Asked Questions”, p. 2 Link: https://bit.ly/2J2gmX9

European Aviation Safety Agency (2016). “Explanatory Note”, Prototype Commission Regulation on Unmanned Aircraft Regulation, p. 13. Link: https://bit.ly/2IZFpKq

[2] Classificazione Aeromobili a Pilotaggio Remoto

Categoria Raggio operativo (km) Quota di volo (m) Durata del volo (h) MTOW (kg)
Nano < 1 100 < 1 < 0,0250
Micro < 10 250 1 < 5
Mini < 10 150 – 300 < 2 < 30

 

[3] Una Canon Reflex entry-level, quale la EOS 1300D, è venduta sul sito ufficiale della Canon per € 470,99. Nella stessa fascia di ricadono anche le Nikon, per esempio la Nikon D3400.I droni delle serie Phantom e Mavic, le più famose dell’azienda cinese DJi, leader nel settore, hanno un prezzo compreso tra i 500 e i 1.200 dollari e sono tra i più venduti al mondo. Nel 2017, la DJi deteneva oltre il 36% del mercato nordamericano per questa tipologia di prodotti.

Chandler, C. (2017). “For China’s high-flying drone maker, the sky’s the limit”, Fortune. Link: https://bit.ly/2vt9BWr

Glaser, A. (2017). “DJi is running away with the drone market”, Recode. Link: https://bit.ly/2nNIhkd

[4] Un esempio è il Caso Neistat a Manhattan.

P.A. Aitken (2017) “Copy of FAA message sent. Casey Neistat investigation lacks conclusive evidence”, Taitkenflight. Link: https://bit.ly/2W2f5SY;

Andy (2017) “EXCLUSIVE: Details of Casey Neistat’s FAA investigations”, Andy’s Travel Blog. Link: https://bit.ly/2TfKoli.

[5] BBC (2018), “Gatwick airport: Drones ground flights”, BBC. Link: https://bbc.in/2EvX5uW

BBC (2019), “Heathrow airport drone investigated by police and military”, BBC. Link: https://bbc.in/2Hs4768

BBC (2019), “Heathrow airport: Drone sighting halts departures”, BBC. Link: https://bbc.in/2RokRAL

[6] “Geo-fencing is the concept of restricting drone access by designating specific areas where the drone’s soft- ware and/or hardware is designed not to enter, even if the pilot, without intent, instructs the drone to go” European Aviation Safety Agency (2015), “Concept of Operations for Drones…”, ibidem.

[7] Ryan Whitman (2017) “Russian Company Is Selling Mods to Bypass DJI Drone Safety Features”, Extreme Tech. Link: https://bit.ly/2YCHFj6

[8] Dalle interviste condotte con appassionati del settore risulterebbe infatti che, nel momento in cui il drone DJi si avvicina ad aree non sorvolabili, l’operatore viene allertato con un avviso pop-up. Accettando l’avviso, il drone continua comunque a funzionare ed è ancora da accertare se e come il sistema di geo-fencing si comporterebbe in questo caso. Qui sotto si riporta il testo del pop-up che appare su un drone di marca DJi —

No-Fly Zones. There are 1 Authorization Zone(s) nearby. Authorization zone type: Military Facility(Military Zones). Your aircraft may experience RTH interruption, hovering, or Intelligent Flight Mode cancellation. Please fly with caution. Do you wish to apply for Self-Unlocking to access these zones? No / Yes”

[9] “[ISIS] è un progetto politico di lungo termine con confini mobili […] Frutto delle idee di Abu Musab al-Zarqawi, proclamato “Califfato” il 29 giugno 2014 da Abu Bakr al Baghdadi, ha ridisegnato la geografia del Medio Oriente cancellando i confini di Iraq e Siria prodotti dagli accordi di Sykes Picot del 1916. Si proietta contro gli stati postcoloniali che sorgono all’interno della mappa di “Bilad al Sham”, la leggendaria nazione araba del Levante che corrisponde agli attuali territori di Iraq, Siria, Giordania, Libano, Israele e Autorità nazionale Palestinese”, cit. M. Molinari (2015), “Il Califfato del terrore. Perché lo Stato Islamico minaccia l’Occidente”, Rizzoli, pp. 10-11.

[10] Peter Bergen e Emily Schneider (2014) “Now ISIS has drones?”, CNN. Link: https://cnn.it/2SMwMWm

Ben Watson (2017) “The Drones of ISIS”, Defense One. Link: https://bit.ly/2YmIus0

Mike Peshmerganor (2018), Blood Makes the Grass Grow: A Norwegian Volunteer’s Fight Against the Islamic State, Independently Published.

[11] L. E. Davis et al. (2014) “Armed and Dangerous? UAVs and U.S. Security”, RAND Corporation. Link: https://bit.ly/2LMqWUu

[12] In questo caso, si fa riferimento ad un video, circolato su internet dall’agenzia Amaq (affiliata ad ISIS) e rilanciato da ABC News (https://ab.co/2Ybr6en), in cui si vedeva un drone sganciare munizioni su un deposito di armamenti siriano. Nonostante lo scetticismo dell’autore di questo studio sull’autenticità delle immagini, rimane innegabile il potenziale propagandistico di queste tecnologie. Link al video: https://bit.ly/2Yxz9BH

[13] Al momento, infatti, sono dotati di sistemi jammer i servizi centrali di Polizia, i quali sono coinvolti in casi di esigenza specifica, oppure gli uffici in cui vengono discussi argomenti riservati, al fine di effettuare le bonifiche periodiche.

[14] Decreto Legislativo 11 aprile 2011, n. 61, in attuazione della Direttiva 2008/114/CE recante l’individuazione e la designazione delle infrastrutture critiche europee e la valutazione della necessità di migliorarne la protezione.

Testo del Decreto Legislativo: https://bit.ly/2NRjMQj

Testo della Direttiva europea: https://bit.ly/2Y6pUZ8

[15]Human-in-the-loop (HITL). A model that requires human interaction.” Cit. USA Department of Defense (1998), “DoD Modeling and Simulation (M&S) Glossary”, DOD 5000.59-M, p. 124 (enfasi nel testo).

[16] “UAV swarms, inspired mainly by the swarms of insects, are groups of small independent unmanned vehicles that coordinate their operations through autonomous communications to accomplish goals as an intelligent group, with or without human supervision. It may be a heterogeneous mix of machines with dissimilar tasks but contributing synergistically to the overall mission objectives”, cit. Puneet Bhalla (2015), “Emerging Trends in Unmanned Aerial Systems”, Scholar Warrior, Autumn 2015, p. 89.

[17] Chemical, Biological, Radiological and Nuclear.

[18] Definitions of “fail-safe” —

(American English): adj. “[D]esignating, of, or involving a procedure designed to prevent malfunctioning or unintentional operation […]”.

(British English): adj. “Something that is fail-safe is designed or made in such a way that nothing dangerous can happen if a part of it goes wrong”.

Collins Dictionary, link: https://bit.ly/2Y98T1i

[19] Durante una gara di droni svoltasi a Torino nell’estate 2019, un attacco hacker al Wi-Fi dell’organizzazione ha reso i droni incontrollabili da parte degli operatori. Questo è dovuto al fatto che tutti gli APR erano telecomandati a distanza sulla stessa rete Wi-Fi, offerta dagli organizzatori – dunque, attaccare questa infrastruttura equivaleva ad un attacco cyber che non aveva nessun effetto diretto sui droni (non si interveniva infatti sulle macchine), bensì sulla comunicazione wireless in senso lato. Le cause dell’“impazzimento” sono da ritrovarsi nel fatto che questi APR fossero droni da corsa di fattura artigianale, presumibilmente senza alcun sistema di fail-safe, già lanciati a forte velocità nel momento in cui l’attacco li ha scollegati dai loro telecomandi.

Alessandro Contaldo (2019), “Attacco hacker alla drone race: i quadricotteri fuori costretti ad atterraggi di emergenza”, La Repubblica. Link: https://bit.ly/2NPVGv

[20] Qui di seguito si forniscono alcune definizioni —

“An improvised explosive device (IED) is a type on unconventional explosive weapon that can take any form and be activated in a variety of ways. They target soldiers and civilians alike. In today’s conflicts, IEDs play an increasingly important role and will continue to be part of the operating environment for future NATO military operations. NATO must remain prepared to counter IEDs in any land or maritime operation involving asymmetrical threats, in which force protection will remain a paramount priority.” in NATO (2018), Improvised explosive devices, www.bit.ly/2Ykd4qb.

Electronic Warfare: The use of electromagnetic (EM) or directed energy to exploit the electromagnetic spectrum. It may include interception or identification of EM emissions (es.: SIGINT), employment of EM energy, prevention of hostile use of the EM spectrum by an adversary, and actions to ensure efficient employment of that spectrum by the user-State. An example of electronic warfare is radio frequency jamming” in Michael N. Schmitt, editor (2016), Tallinn Manual 2.0 on the international law applicable to cyber operations, Cambridge University Press, p. 565 (enfasi nel testo).

[21] L’utilizzo di jammer di uso comune (civili) è legale, ancorché vengano rispettati i limiti di emissione ed esposizione previsti per legge e non causino interruzione di pubblico servizio (art. 340 del Codice Penale). Le Forze Armate e dell’Ordine possono farne uso in casi particolari, quando cioè operano in deroga, per es. per questioni di pubblica sicurezza, protezione di personalità, ordine pubblico et simili.

[22] Come può essere, per esempio, la pistola jammer Wilson.

[23] COMFOTER SPT (2018), “Sperimentazione antidrone del COMACA”, Esercito. Link: https://bit.ly/2HeeZnR

Stato Maggiore Esercito (2018), “Sperimentazione antidrone del COMACA”, Difesa Online. Link: https://bit.ly/32Xf9b5

Maurizio Tortorella (2019), “Abbattete quel drone”, Panorama. Link: https://bit.ly/2GwHUBF.

Secondo indiscrezioni, queste esercitazioni sarebbero state condotte utilizzando fucile Beretta calibro 12.

[24] La scelta di questo dato non è casuale. Apparentemente, il sistema ‘Drone Dome’, di manifattura israeliana, usato presso l’aeroporto di Gatwick contro il drone che aveva causato lo stop del traffico aereo sarebbe costato al Regno Unito circa 2.6 milioni di sterline – al cambio attuale, quasi 2.9 milioni di euro.

Joe Pinkstone (2018), “The £2.6m Israeli ‘Drone Dome’ system that the Army used to defeat the Gatwick UAV after the technology was developed to fight ISIS in Syria”, Daily Mail Online. Link: https://dailym.ai/2T4PKXb

[25] Come risulta da alcune stime fatte da esperti del settore in sede d’intervista.

[26] Si tratta del DronekillerTM, prodotto dalla IXI Technology. Sito aziendale: https://bit.ly/30ZSOaU

IXI Technology, documento recante le specifiche del Dronekiller: https://bit.ly/2Ykc5ax

[27] Cit. da Ministero della Difesa / Stato Maggiore della Difesa (2019), “Le Forze Armate concorrono alla cornice di sicurezza per la visita del Presidente Putin”, Difesa. Link: https://bit.ly/2YzxkF4

Tutti gli indirizzi web indicati nel presente studio sono stati consultati in ultima istanza il 27 settembre 2019.


Principali eventi nell’area del Maghreb e del Mashreq – settembre

Algeria

L’Algeria continua ad essere scossa politicamente dalle manifestazioni di piazza. Il governo algerino, da un lato cerca di presentare il processo elettorale come risolutivo per le istanze sollevate dalla crescente massa di manifestanti; dall’altro lato la repressione della componente militare suggerisce il rischio di un deterioramento progressivo che potrebbe compromettere le elezioni presidenziali, in calendario per il prossimo 12 dicembre.

Algeria ed ExxonMobil, un gigante dell’energia degli Stati Uniti, hanno firmato un accordo per studiare il potenziale di idrocarburi nel deserto del Sahara nella nazione nordafricana, secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa ufficiale APS. Secondo l’Agenzia nazionale per la valutazione delle risorse di idrocarburi dell’Algeria (ALNAFT), ExxonMobil ha mostrato interesse nel settore algerino di idrocarburi, valutato come particolarmente ricco di idrocarburi. Secondo una precedente dichiarazione del governo del 28 gennaio 2019, le riserve di energia non convenzionale dell’Algeria la rendono la terza al mondo per gas di scisto e la settima per il petrolio di scisto. La firma dell’accordo, parte della missione di ALNAFT di promozione e sviluppo dell’estrazione di idrocarburi, rende ExxonMobil la quarta società multinazionale ad aderire all’agenzia in questo studio, dopo l’ENI italiana, la Total francese e la Equinor norvegese.

Egitto

Più di 2.000 manifestanti sono stati arrestati dopo la manifestazione di piazza del 23 settembre. Le autorità egiziane hanno arrestato più di 2.000 persone, tra cui diversi soggetto di alto profilo, dopo che alcune proteste si sono svolte in diverse città per chiedere al presidente Abdel Fattah el-Sisi di dimettersi. Tra i denunciati e arrestati figurano uno dei più importanti personaggi dell’opposizione egiziana, un ex portavoce di un candidato alle elezioni presidenziali dell’anno scorso e un noto scrittore. Sfidando il divieto di protestare senza permesso, migliaia di persone sono scese in piazza nella capitale del Cairo e in altre città venerdì in risposta alle richieste di manifestazioni contro la presunta corruzione del governo. Le proteste sono proseguite sabato nella città di Suez nel Mar Rosso.

Israele

Elezioni israeliane: Netanyahu e Gantz promettono entrambi di formare il prossimo governo: Gantz ha suggerito di voler prendere in considerazione un governo di unità nazionale.

Libia

Un attacco aereo statunitense nel sud-ovest della Libia ha provocato la morte di 17 persone, presumibilmente affiliate allo Stato islamico: il terzo attacco contro i militanti jihadisti è stato effettuato il 26 settembre dal comando statunitense dell’Africa (AFRICOM), in collaborazione con il governo libico di accordo nazionale (GNA). Gli attacchi statunitensi in Libia, registrati a settembre, sono i primi dell’ultimo anno. Riporta l’Associated Press (AP) che, secondo fonti ufficiali degli Stati Uniti, Washington continuerà a colpire lo Stato islamico-Libia e altri gruppi terroristi nella regione, al fine di impedire la creazione di aree sicure per il terrorismo  e per coordinare e pianificare le operazioni in Libia.

Tunisia

Elezioni presidenziali: due candidati, uno è in prigione. Nel primo turno delle elezioni presidenziali, tutti i candidati del partito principale sono stati eliminati, lasciando due contendenti: Kais Saied, un professore di legge sconosciuto alla massa degli elettori, che aveva ottenuto il 18,4% dei voti come candidato indipendente, e Nabil Karoui, un uomo d’affari e comproprietario di una popolare rete televisiva (detenuto in carcere in attesa di processo per corruzione e riciclaggio sino a pochi giorni dalle elezioni), che ha ottenuto il 15,6 percento. Karoui è sostenuto principalmente da un elettorato di basso livello socio-economico, attraverso il quale ha fatto breccia attraverso la sua rete televisiva Nessma e un’organizzazione filantropica, Khalil Tounes. Il professor Saied, suo avversario, ha condotto una campagna quasi senza pubblicità, basandosi su un’immagine di integrità e sui voti dei giovani disillusi dal sistema politico. Il successo di questi due competitor minaccia di distruggere il modello di consenso della Tunisia in essere dal 2011, in cui conservatori e modernisti hanno condiviso il potere.


L’interesse strategico della Turchia in Libia: l’attivismo militare a sostegno degli islamisti

di Claudio Bertolotti

articolo originale pubblicato sull’Osservatorio Strategico Ce.Mi.S.S. 3/2019

L’aeroporto di Misurata, all’interno del quale si trova anche la base della missione bilaterale di assistenza e supporto in Libia (MIASIT), è stato più volte bombardato dai droni a supporto del Libyan National Army guidato dal Generale Khalifa Haftar. Attacchi aerei che si sono concentrati su obiettivi militari riconducibili alla Turchia, attivamente impegnata a supporto del Governo di Accordo Nazionale di Fajez al-Serraj, e che pongono in evidenza gli effetti della war by proxy in corso in Libia

Attivismo turco in Libia: tra interessi finanziari e aiuti militari

Il governo di accordo nazionale (GNA – Government of National Accord) di Tripoli, guidato da Fajez al-Sarraj e riconosciuto dalle Nazioni Unite, è sostenuto direttamente sul piano politico, diplomatico e militare da Regno Unito, Tunisia, Qatar, Turchia, Marocco e Algeria.
Il supporto turco, in particolare, ha contribuito alla sopravvivenza del GNA, minacciato dall’offensiva lanciata il 4 aprile scorso dal rivale Khalifa Haftar alla guida dell’esercito nazionale libico (LNA, Libyan National Army) di Tobruk.
Un aiuto, quello turco, che solamente negli ultimi due mesi ha garantito al governo tripolino rifornimenti militari comprendenti quaranta veicoli protetti MRAP KIRPI e VURAN di produzione turca, sistemi missilistici UCAV BAYRAKTAR TB2 , equipaggiamenti, mine anti-carro, fucili di precisione, mitragliatrici, munizioni e droni militari. A questi aiuti materiali si sommerebbero, come più volte denunciato dal governo di Tobruk, miliziani islamisti provenienti dalla Siria.
Un consistente e fondamentale aiuto militare che è prova del sostegno politico alla compagine governativa di Tripoli a cui la Turchia guarda con grande favore in virtù dei consolidati interessi di natura economico-finanziaria e geopolitica.
Il supporto della Turchia al GNA è una delle molte decisioni di politica estera che hanno collocato Ankara sul fronte opposto all’Egitto e ai suoi alleati degli Stati del Golfo, portando alcuni analisti a descrivere il conflitto libico come una guerra regionale per procura (war by proxy). Una guerra in cui il governo di Tobruk – e il suo esercito guidato da Haftar – gode del sostegno diretto di Russia, Arabia Saudita, Egitto ed Emirati Arabi Uniti. Questi ultimi, attraverso la base militare nigerina al confine con la Libia, continuerebbero a garantire il loro supporto alle forze di Haftar in Fezzan (area di Saba) attraverso azioni ISR (intelligence, sorveglianza e ricognizione) e attacco al suolo  nella zona di Misurata e Tripoli.

La Turchia sostiene l’opzione politica e governativa della Fratellanza musulmana al fine di creare un fronte a guida islamista ma con l’esclusione del parlamento, dei militari, di influenti attori sociali e delle forze liberali e progressiste, a discapito di un vero processo di riconciliazione nazionale.

Una polarizzazione, tra competitor regionali che giocano le loro partite attraverso il confronto tra Tripoli e Tobruk, in cui dal 2014 si inserisce la Turchia del presidente Recep Tayyp Erdogan a sostegno di quegli elementi islamisti che compongono il GNA che, opponendosi ai risultati elettorali, hanno portato alla formazione di un governo rivale a Tobruk. Le ragioni del sostegno turco al GNA sono complesse, ma emergono una serie di fattori utili a comprendere il perché dell’intervento sempre più attivo di Ankara in Libia.
Una delle ragioni più plausibili è la vicinanza ideologica alla componente islamista all’interno del GNA rappresentata dalla Fratellanza Musulmana. Da un lato è evidente il ruolo giocato dai Fratelli Musulmani nel contribuire a definire le relazioni della Turchia con la Siria, il Sudan, i territori palestinesi e l’Egitto; dall’altro lato, l’Egitto (a cui Erdogan non ha mai nascosto la sua opposizione al presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, da quando il generale ha rovesciato il suo predecessore, e caro amico del presidente turco, Mohammed Morsi) e gli Stati del Golfo considerano il gruppo islamista un’organizzazione terroristica, e per questa ragione condannano il ruolo di Ankara in loro sostegno.
L’opzione turca si baserebbe dunque sul coinvolgimento politico e governativo della Fratellanza musulmana al fine di creare un fronte a guida islamista ma con l’esclusione del parlamento, dei militari, di influenti attori sociali e delle forze liberali e progressiste, a discapito di un vero processo di riconciliazione nazionale . Un sostegno, quello turco agli islamisti libici, che avrebbe portato a un rapporto simbiotico e di reciproca dipendenza tra i due soggetti: gli islamisti hanno bisogno del sostegno di Ankara per sopravvivere all’offensiva dell’LNA, mentre la Turchia ha bisogno degli islamisti poiché sono gli unici in grado di consentire un’influenza turca sul piano politico, e dunque su quello economico e finanziario. E in tale quadro rientrano i rapporti di collaborazione con il Qatar – sostenitore di Ankara, tanto da finanziare il governo turco afflitto dalla recente recessione economica – che è il maggiore finanziatore del GNA. Dunque, un’alleanza che ha portato a definire i ruoli coordinati dei due partner in Libia: Ankara, sul piano militare, Doha, su quello finanziario .
Sul piano degli equilibri a livello regionale, inoltre, la presa di posizione turca a sostegno degli islamisti libici rientrerebbe in una scelta politica volta a indebolire internamente lo stesso al-Sisi (che insieme ai suoi alleati del Golfo sostiene Haftar e l’LNA) attraverso un contrasto militare che avrebbe ripercussioni anche in Egitto.
Un’ulteriore ragione plausibile del sostegno turco al GNA, è l’aspetto economico: la Libia possiede tra le più ricche riserve di idrocarburi in Africa, pari a 48 miliardi di barili; mentre le riserve tecnicamente recuperabili dal petrolio di scisto (attraverso la tecnica del fracking) sono stimate in 26 miliardi di barili. Inoltre, la Libia ha un enorme potenziale di esportazione: che garantisce circa il 90% delle entrate complessive del paese .
La Turchia, guardando con favore a una divisione del paese tra spinte competitive tra le tribù e la debolezza delle istituzioni democratiche, avrebbe gioco facile nell’imporre la propria egemonia; così facendo otterrebbe un accesso privilegiato alle risorse energetiche libiche e, al contempo, avrebbe un alleato in grado di “alleggerire” l’isolamento sul piano delle estrazioni di idrocarburi nel Mediterraneo orientale, conseguente all’opposizione della Turchia ai piani di perforazione autorizzati dall’amministrazione cipriota. Una scoperta di riserve potenzialmente enormi di idrocarburi, quelle nel mare di Cipro, che ha portato a una collaborazione da parte dei paesi regionali per accedervi – Egitto, Cipro, Grecia, Israele –, a svantaggio di Ankara .

L’attivismo della Turchia a Misurata e il bombardamento dell’aeroporto che ospita il contingente italiano

Misurata rappresenta un obiettivo primario nella strategia di Ankara per la Libia. Qui risiede un’importante minoranza etnica di origine turca – la tribù dei Karaghla – che, stando a quanto afferma Ali Muhammad al-Sallabi, leader della Fratellanza musulmana di Misurata, avrebbe stretto alleanza con il gruppo islamista locale . I Karaghla, le cui origini risalirebbero all’inizio dell’occupazione ottomana, sono oggi presenti nelle aree di Misurata, Tripoli, Zawiya e Zliten; il clan più numeroso è quello di Ramla, prevalente a Misurata. Nel complesso si tratta di un gruppo tribale economicamente forte e influente in ambito politico e finanziario .
L’importanza dei Karaghla e la loro vicinanza ai Fratelli musulmani ne hanno fatto un elemento di interesse da parte della Turchia, contribuendo alla crescente influenza di Ankara sulla città attraverso il sostegno finanziario, politico e militare ai gruppi di potere locali legati alla lotta armata e ai commerci, legali e illegali, che attraversano l’area.
Riporta G. Criscuolo nella sua analisi sulla Libia : “Saad Amgheib, membro del Parlamento libico: La Turchia sta giocando con l’appoggio dei Fratelli Musulmani per mettere le mani sulla Libia. In più sta lavorando di fino con coloro che appartengono alla tribù di origine turca e che hanno grande potere soprattutto nella città di Misurata (…)”. Secondo l’analista politico libico Abdul Basit Balhamil – riporta G. Criscuolo –, “Dal 2014 Misurata è stata trasformata in una base turca in cui vengono trasferite armi (…)” . Accuse analoghe provengono da parte di Haftar: “dall’aeroporto di Misurata passano le armi e i velivoli turchi che aiutano il governo di Tripoli”.
Ragioni, queste, per la quali i droni degli Emirati Arabi Uniti a supporto dell’esercito di Haftar avrebbero colpito, con “attacchi molto precisi” , obiettivi all’interno dell’aeroporto di Misurata, sede dell’Accademia aerea libica e dove è schierato ed opera il contingente italiano. Attacchi che, ha affermato Haftar, sono “rappresaglia per l’attacco aereo di Jufra condotto da droni turchi”  e che si sono concentrati su obiettivi riconducibili agli interessi di Ankara: una prima volta nella notte tra venerdì 26 e sabato 27 luglio, seguito da un secondo attacco martedì 6 agosto e un terzo mercoledì 7 agosto. L’ultimo bombardamento, avvenuto nella notte tra il 17 e il 18 agosto, ha provocato almeno undici esplosioni a meno di cinquecento metri di distanza dal contingente italiano. Gli obiettivi colpiti, sulla base delle dichiarazioni delle forze di Haftar, sarebbero dieci, comprendenti “una sala operatoria, equipaggiamenti di difesa aerea, depositi di munizioni” .

La presenza militare italiana a Misurata

A Misurata l’Italia è impegnata con un proprio contingente militare, nell’ambito della missione bilaterale di assistenza e supporto in Libia (MIASIT), il cui compito consiste nel fornire assistenza e supporto al GNA libico ed è frutto della riconfigurazione, in un unico dispositivo, delle attività di supporto sanitario e umanitario previste dalla precedente Operazione Ippocrate (conclusa, come missione autonoma, il 31 dicembre 2017) e di alcuni compiti di supporto tecnico-manutentivo a favore della Guardia costiera libica rientranti nell’operazione Mare Sicuro. La nuova missione, che ha avuto inizio a gennaio 2018, ha l’obiettivo di rendere l’azione di assistenza e supporto in Libia maggiormente incisiva ed efficace, sostenendo le autorità libiche nell’azione di pacificazione e stabilizzazione del Paese e nel rafforzamento delle attività di controllo e contrasto dell’immigrazione illegale, dei traffici illegali e delle minacce alla sicurezza, in armonia con le linee di intervento decise dalle Nazioni Unite.
Il contingente italiano, composto da 400 militari, 130 mezzi terrestri e mezzi navali e aerei (questi ultimi tratti nell’ambito delle unità del dispositivo aeronavale nazionale Mare Sicuro), comprende personale sanitario, unità per assistenza e supporto sanitario, unità con compiti di formazione, addestramento consulenza, assistenza, supporto e mentoring (compresi i Mobile Training Team), unità per il supporto logistico generale, unità per lavori infrastrutturali, unità di tecnici/specialisti, squadra rilevazioni contro minacce chimiche-biologiche-radiologiche-nucleari (CBRN), team per ricognizione e per comando e controllo, personale di collegamento presso dicasteri/stati maggiori libici, unità con compiti di force protection del personale nelle aree in cui esso opera. Inoltre, nell’ambito della missione sono confluite le attività di supporto sanitario e umanitario già parte dell’Operazione Ippocrate e alcuni compiti previsti dalla missione in supporto alla Guardia costiera libica, tra i quali quelli di ripristino dei mezzi aerei e degli aeroporti libici, fino ad ora inseriti tra quelli svolti dal dispositivo aeronavale nazionale Mare Sicuro .
Il contributo militare italiano, nel dettaglio, ha il compito di fornire assistenza e supporto sanitario; condurre attività di sostegno a carattere umanitario e a fini di prevenzione sanitaria attraverso corsi di aggiornamento a favore di team libici impegnati nello sminamento; fornire attività di formazione, addestramento, consulenza, assistenza, supporto e mentoring a favore delle forze di sicurezza e delle istituzioni governative libiche, in Italia e in Libia, al fine di incrementarne le capacità complessive; assicurare assistenza e supporto addestrativi e di mentoring alle forze di sicurezza libiche per le attività di controllo e contrasto dell’immigrazione illegale, dei traffici illegali e delle minacce alla sicurezza della Libia; svolgere attività per il ripristino dell’efficienza dei principali assetti terrestri, navali e aerei, comprese le relative infrastrutture, funzionali allo sviluppo della capacità libica di controllo del territorio e al supporto per il contrasto dell’immigrazione illegale; supportare le iniziative, nell’ambito dei compiti previsti dalla missione, poste in essere da altri Dicasteri; incentivare e collaborare per lo sviluppo di capacity building della Libia; effettuare ricognizioni in territorio libico per la determinazione delle attività di supporto da svolgere; garantire un’adeguata cornice di sicurezza/force protection al personale impiegato nello svolgimento delle attività/iniziative in Libia .