Baji-Caid-Essebsi

Tunisia: un nuovo equilibrio politico dopo Béji Caïd Essebsi?

di Claudio Bertolotti

articolo originale pubblicato su “Osservatorio Strategico” – Ce.Mi.S.S. – Scarica il Report

L’eredità di Béji Caïd Essebsi

Il presidente Béji Caïd Essebsi, il più vecchio presidente in carica al mondo, è morto il 25 luglio all’età di 92 anni. Essebsi è stato prima il leader di transizione della Tunisia dopo la rivolta popolare del 2011 che ha segnato la fine del regime di Zine el-Abedine Ben Ali e, successivamente, eletto presidente nelle elezioni del 2014. Pur appartenendo alla vecchia generazione di politici, è stato l’unico appartenente al “vecchio regime” a ricoprire un ruolo di rilievo nella nuova democrazia nonostante i legami con le dittature di Habib Bourguiba – primo presidente dopo l’indipendenza dalla Francia, e tra i più importanti leader laici e nazionalisti nel mondo di lingua araba – e di Ben Ali. Essebsi ha prima combattuto per l’ottenimento della democrazia in Tunisia, poi ha contribuito ai regimi dittatoriali degli anni ’60 e ’80 e, infine, ha svolto un ruolo di traghettatore per il ritorno della vecchia guardia dopo lo sconvolgimento della “primavera araba” tunisina nel 2011. Già in pensione, grazie alla sue esperienza di governo e alla sua reputazione, nel 2011 ha assunto il ruolo primo ministro ad interim dopo la rivolta popolare che ha rovesciato, dopo 23 anni, Ben Ali, poi rifugiato in Arabia Saudita; una rivoluzione tunisina da cui hanno preso vita i moti di rivolta antigovernativi in tutto il Nord Africa e il Medio Oriente, noti come la “primavera araba”.

Essebsi ha contribuito a fondare il partito politico laico, Nidaa Tounis (Call for Tunisia), portando avanti una campagna politica volta a contrastare l’islamismo politico, in particolare in opposizione al movimento Ennahdha, emanazione dei Fratelli musulmani. Contrariamente all’Egitto, dove Abdel-Fattah el-Sisi ha operato direttamente contro i Fratelli musulmani – e dove i militari hanno preso il potere attraverso la repressione violenta dell’islamismo politico – la Tunisia è riuscita nel 2013-2014 a negoziare con Ennahdha al fine di stabilizzare il paese, combattere il terrorismo e migliorare un’economia in forte difficoltà. Un dialogo nazionale che ha raggiunto un compromesso con gli islamisti e ha riconosciuto la legittimità del loro ruolo di attori politici. Un approccio che ha contribuito a preservare l’esperimento democratico tunisino dopo le elezioni del 2014 attraverso la formazione di una coalizione di governo con Ennahda, nonostante la forti resistenze all’interno del fronte laico.

Sul fronte politico e sociale, per quanto riguarda Youssef Cherif, analista politico presso i Columbia Global Centers di Tunisi, Essebsi “ha cercato di favorire l’educazione e i valori progressisti, ma ha anche incoraggiato il nepotismo offrendo a suo figlio la guida del suo partito e nominando molte persone in posizioni di vertice per il loro grado di fedeltà e non per la loro competenza“. Oggi, dopo 60 anni di dittatura, la società tunisina rimane fratturata. Politicamente, i laici, compresa la sinistra locale e i nazionalisti arabi, competono con gli islamisti. Sul piano sociale invece, una ricca élite vive nelle città costiere che sono molto lontane dalle regioni più interne, povere e sottosviluppate, dove è iniziata la rivoluzione e dove continuano a manifestarsi importanti disordini popolari.

Dinamiche politiche

Il presidente della Tunisia, che viene eletto dal popolo per un mandato quinquennale rinnovabile una volta, ha principalmente autorità sulla politica estera e di difesa e governa affiancato dal primo ministro, scelto dal parlamento, che ha autorità sugli affari interni. Con la morte di Essebsi, il presidente del parlamento Mohamed Ennaceur (85 anni), ha assunto la carica di capo di stato. Sulla base della costituzione del Paese, il presidente del parlamento mantiene la presidenza per un periodo di 45-90 giorni durante il quale viene avviato l’iter organizzativo per l’elezione del nuovo capo dello Stato: originariamente previste per novembre, le elezioni sono state anticipate al 15 settembre, come confermato da Nabil Baffoun, capo dell’Alta Autorità Indipendente per le elezioni. La campagna elettorale è stata fissata nel periodo 2-13 settembre, mentre i risultati è previsto siano annunciati due giorni dopo. Una data per il secondo turno non è ancora stata decisa ma, secondo fonti istituzionali, dovrebbe tenersi entro il 3 novembre. Ciò significa che la Tunisia sarà chiamata al voto tre volte, a settembre e novembre per le elezioni presidenziali anticipate, e ad ottobre per le elezioni parlamentari che erano già in calendario.

Nidaa Tounes è frammentata e fortemente indebolita, anche a causa della lunga serie di battaglie politiche che hanno visto contrapporsi Essebsi e il suo primo ministro, Youssef Chahed; una confronto energico in cui si è inserito anche Rachid Ghannouchi, leader del partito islamista Ennahda. La morte di Essebsi porterà con buona probabilità a un consolidamento all’interno del partito liberale Nidaa Tounis del ruolo di guida del figlio, Hafedh Caïd Essebsi – che ha assunto la guida del partito politico – in contrapposizione al primo ministro Youssef Chahed, alla guida della fazione separatista Tahya Tounis.

E infatti, Slim Azzabi, segretario generale del partito Tahya Tounis, ha dichiarato che il primo ministro tunisino, Youssef Chahed, si candiderà alla presidenza con buone probabilità di succedere a Beji Caid Essebsi. Il partito Tahaya Tounis è ora il più grande gruppo liberale del parlamento tunisino e governa in coalizione con il partito islamista Ennahda e un partito liberale più piccolo.

Altri candidati che hanno annunciato l’intenzione di candidarsi sono l’ex primo ministro liberale Mehdi Jomaa e Moncef Marzouki, che è stato presidente ad interim per tre anni dopo la caduta di Ben Ali, per poi cedere la posizione ad Essebsi dopo le prime elezioni presidenziali democratiche del 2014.

Ennahda, che non ha ancora nominato il suo candidato alla presidenza, nel 2016 ha avviato un processo di revisione del proprio programma elettorale, limitando il riferimento all’Islam politico, prendendo le distanze dalle sue stesse origini islamiste e riorganizzandosi come movimento politico di riferimento per i musulmani democratici; una mossa strategica che si è concretizzata sul piano comunicativo, più che su quello sostanziale poiché il movimento politico ha mantenuto la propria natura di partito islamico conservatore. Ciò che confermerebbe la realizzazione di un progetto di rebranding avviato di Ennahda, più che un reale cambio ideologico, è l’attività politica svolta dai suoi leader; quando il presidente di Ennahda, Rachid Ghannouchi, annunciò l’allontanamento dall’islamismo tradizionale, proclamò anche una separazione delle attività politiche e religiose del partito: un modo per consentire ai vertici del partito di concentrarsi sulla politica nella capitale tunisina, e agli attivisti di operare sul piano civico e religioso nelle province e nelle lontane aree rurali – dove c’è un maggiore sostegno popolare derivante da una diffusa visione conservatrice e meno liberale della società.

Problemi di sicurezza

Crisi istituzionale ed economica e minaccia jihadista: la morte di Essebsi si verifica in un periodo di potenziale destabilizzazione per il paese nordafricano.

La Tunisia è l’unico paese ad essere emerso dalla cosiddetta primavera araba con una democrazia pagata a caro prezzo me ancora molto instabile. Il paese è sopravvissuto a un’ondata di omicidi politici e ai micidiali attacchi terroristici contro le sue forze di sicurezza e a danno della strategica industria del turismo, ma non è riuscito a contenerne gli effetti sul lungo periodo quali la disoccupazione e l’inflazione. La situazione attuale è quella di un Paese in stato di emergenza.

L’area mediterranea stava cominciando a riprendersi dagli attacchi rivendicati principalmente dal gruppo terroristico Stato Islamico (IS) negli anni e nei mesi precedenti, tanto da indurre un significativo numero di turisti a scegliere la Tunisia come meta per le vacanze estive. Ma gli attacchi suicidi avvenuti nella capitale tunisina a giugno (dopo quello dell’ottobre scorso, sempre nel centro di Tunisi), l’instabilità politica derivante dalla morte del presidente e l’incerto scenario generale hanno inferto un duro colpo a un’economia già fortemente provata.

Da un lato, permane il rischio di una scarsa capacità del paese di far fronte al rientro dei foreign fighter veterani che hanno combattuto nelle fila dello Stato islamico in Libia, come in Siria e Iraq; tra i 5000 e gli 8000 cittadini tunisini si sono uniti al gruppo: alcuni si pensa che stiano rispiegandosi nella vicina Libia, un paese devastato dalla violenza, altri invece hanno già fatto rientro a casa. D’altra parte, sempre più preoccupante è la significativa presenza digruppi di opposizione armata che operano nelle aree montane al confine con l’Algeria.

Analisi, valutazioni, previsioni

La dipartita di Essebsi è importante non solo per quanto da lui fatto in termini di avvio del processo democratico, ma lo è in particolare perché avviene in un momento di grande difficoltà che il Paese sta attraversando.

Se è verosimile che ciò non inciderà profondamente sulla stabilità generale della Tunisia, poiché nel Paese è radicata la convinzione della legittimità del processo politico in corso, va però posta attenzione sulle future implicazioni poiché la morte del vecchio presidente, da un lato, lascia un vuoto in termini di leadership ampiamente riconosciuta e, dall’altro, apre al rischio di maggiori divisioni e frammentazioni all’interno del fronte politico laico – con tutte le conseguenze di capacità di attirare il consenso elettorale da parte dei candidati alla presidenza.

Inoltre, dobbiamo considerare due importanti fattori: il primo è la disaffezione politica e la sfiducia nella democrazia che aprono a un crescente malcontento sociale – lo dimostrano le numerose manifestazioni di protesta – spesso contrastato con misure repressive di sicurezza; il secondo fattore è la competizione tra i gruppi di potere, che si collocano sulle linee di faglia tra i partiti politici Ennahda e Nidaa (e all’interno dello stesso partito Nidaa). A causa della situazione di stallo politico e delle differenze ideologiche all’origine della divisione del fronte laico, Ennahda si presenta come l’unico partito coeso e stabile.

In conclusione, l’instabile situazione generale potrà influire sul processo elettorale, anche spostando i voti di una parte significativa di elettorato deluso a favore di alcuni candidati indipendenti.


I principali eventi nell’area del Maghreb e del Mashreq – luglio

di Claudio Bertolotti

articolo originale pubblicato sull’Osservatorio Strategico – Ce.Mi.S.S. Scarica l’analisi completa dal Report

Algeria

Continuano le proteste nelle piazze algerine, nonostante il risultato ottenuto ad aprile con le dimissioni del presidente Abdelaziz Bouteflika. In questo incerto periodo di transizione, importanti aspetti interessano due gruppi chiave per il futuro politico dell’Algeria: i giovani manifestanti e il personale militare. Secondo un nuovo rapporto del Brookings Institute – intitolato “Algeria’s uprising: A survey of protesters and the military” – cresce il sostegno militare verso i manifestanti, e aumenta il divario tra i ranghi superiori e inferiori dell’esercito algerino a sostegno del movimento di protesta. Mentre l’80% dei ranghi inferiori sosterrebbe le istanze dei manifestanti, la percentuale dei sostenitori tra gli ufficiali superiori, al contrario, sarebbe non superiore al 60% afferma.

Israele ed Egitto

A novembre Israele inizierà a esportare gas naturale in Egitto, con volumi stimati in sette miliardi di metri cubi all’anno. Le forniture segneranno l’avvio di un accordo di esportazione di 15 miliardi di dollari tra Israele – Delek Drilling e il partner statunitense Noble Energy – e l’Egitto: un accordo di collaborazione che i funzionari israeliani hanno definito come il più importante dagli accordi di pace del 1979. L’accordo garantirà l’immissione nella rete egiziana del gas naturale israeliani proveniente dai campi offshore Tamar e Leviathan.

Libano

Possibile disputa tra il presidente Michel Aoun e il primo ministro Saad Hariri a causa della sparatoria mortale che ha coinvolto due membri del Partito democratico libanese nell’area drusa di Aley. Le ripercussioni politiche dell’evento hanno paralizzato il governo in un momento critico e rischiano di complicare gli sforzi volti ad attuare le riforme necessarie per risolvere il problema del debito pubblico aggravato dalla crisi finanziaria.

Libia

La compagnia petrolifera nazionale libica ha sospeso le operazioni nel più grande giacimento petrolifero del paese a causa della chiusura “illegale” di una valvola del gasdotto che collega il giacimento petrolifero di Sharara al porto di Zawiya, sulla costa del Mediterraneo. La National Oil Corporation ha annunciato la decisione senza attribuire formalmente la responsabilità dell’atto definito “illegale”. Il giacimento petrolifero di Sharara, che produce circa 290.000 barili al giorno per un valore di 19 milioni di dollari, è controllato da forze fedeli a Khalifa Haftar, capo del cosiddetto esercito nazionale libico (LNA) artefice dell’offensiva lanciata ad aprile contro la capitale libica.

Morocco

Nel suo discorso per la “Giornata del trono” di quest’anno, il 30 luglio il re marocchino Mohammed VI ha annunciato nuovi programmi di sviluppo nazionale e un rimpasto del governo interessante i dicasteri per la politica interna. In termini di politica estera, Mohammed VI ha nuovamente invitato l’Algeria al dialogo e auspicato “l’unità tra le popolazioni nordafricane”. Per quanto riguarda il Sahara occidentale –m ha ribadito –la posizione del Marocco rimane “saldamente ancorata all’integrità territoriale”. Infine, per celebrare i suoi 20 anni di regno, Mohammed VI ha graziato 4.764 detenuti, inclusi alcuni detenuti per terrorismo.

Siria

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha affermato che il suo paese è determinato ad eliminare quello che ha definito il “corridoio del terrore” nel nord della Siria; una decisione, ha ribadito Erdogan, indipendente dal fatto che la Turchia e gli Stati Uniti siano o meno d’accordo sulla creazione di una zona sicura. Ankara vuole una zona lungo il confine con la Siria che sia libera dalla presenza di combattenti curdi. La Turchia ha avvertito dell’intenzione di avviare una nuova offensiva in Siria se non venisse raggiunto un accordo; in tale quadro sono stati recentemente inviati rinforzi militari nella zona di frontiera

Tunisia

Il 25 luglio è morto, all’età di 92 anni, il presidente tunisino Béji Caïd Essebsi. Il presidente del parlamento, Mohamed Ennaceur (85 anni), ha assunto la carica di capo di stato sino alla conclusione del processo elettorale, in calendario per il prossimo 15 settembre. Crisi istituzionale ed economica e minaccia jihadista: la morte di Essebsi si verifica in un periodo di potenziale destabilizzazione per il Paese nordafricano.


Perché in Europa la minaccia del terrorismo jihadista è ancora alta?

articolo originale di C. Bertolotti per Europa Atlantica, su Formiche.net

I Paesi europei affrontano una minaccia terroristica estremamente concreta a causa dell’alto numero di foreign terrorist fighter, della presenza di reti jihadiste sviluppate e della vicinanza geografica alle zone di guerra

A giugno, due attentatori suicidi si sono fatti esplodere nel centro di Tunisi: l’azione è stata seguita dalla rivendicazione dello Stato islamico. A luglio è stato diffuso, attraverso il web, un video edito dal franchise tunisino dello Stato islamico in cui compaiono alcuni uomini armati che, dichiarandosi seguaci del “califfo” Abu Bakr al-Baghdadi, hanno incitato all’azione attraverso la condotta di attacchi violenti.

Alla fine di giugno, in ottemperanza alla misura cautelare in carcere emessa dal Gip di Brescia per il reato di partecipazione ad associazione con finalità di terrorismo, la Polizia di Stato di Brescia, coordinata dalla Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione e con il supporto dell’Fbi statunitense, ha arrestato il foreign terrorist fighter Samir Bougana. L’arrestato è un 25enne italo marocchino che nel 2013, partendo dalla Germania per la Siria, è accusato di essersi unito prima alle milizie associate ad al-Qa’ida e poi allo Stato Islamico. Bougana era stato catturato dalle milizie curde in Siria il 27 agosto 2018.

Casi, tra i tanti, che mantengono i riflettori accesi sulla minaccia del terrorismo jihadista associato allo Stato islamico, a conferma della strategia post-territoriale di ciò che fu l’Isis. Ora le cellule nascoste, i singoli “combattenti”, l’effetto emulativo, l’aumento della propaganda e il reclutamento in tutto il mondo, sono le principali armi su cui il gruppo terrorista sta concentrando gli sforzi, così come evidenziato nell’ultimo video in cui al-Baghdadi ha chiesto ai “lupi solitari” di colpire con “coltelli e veicoli” lanciati contro civili inermi, trasferendo così il campo di battaglia dal Medio Oriente all’Occidente.

Degli oltre 5mila foreign terrorist fighter “europei” partiti per combattere in Medio Oriente (di cui il 14% donne), mille sarebbero caduti in Siria e Iraq. Un numero significativo è però sopravvissuto; un terzo (1500) sarebbero tornati nei propri Paesi, altri 2500 avrebbero trovato rifugio in Paesi terzi unendosi ai gruppi jihadisti locali (dall’Afghanistan alla Libia, dall’Africa all’Asia centrale). Circa 800 al momento sono detenuti nelle carceri curde in Iraq: molte le donne e i bambini. Una condizione di “prigionia” che ha sollevato ampi e legittimi dibattiti in Europa e negli Stati Uniti sull’opportunità di limitare loro la possibilità di rientro nei Paesi di origine, a cui ha fatto seguito la decisione di molti Paesi europei di togliere loro la nazionalità così da non permetterne il ritorno.

Un problema di sicurezza collettiva che, seppur limitato nei numeri e interessante principalmente quattro paesi (Francia, Regno Unito, Germania e Belgio da cui sono partiti almeno 3mila e 700 dei 5000 combattenti), si muove su due binari paralleli e in competizione tra di loro che hanno portato al bipolarismo dello jihadismo globale, diviso tra due principali attori in competizione per il potere e l’influenza: da un lato al-Qa’ida, dall’altro l’evoluzione dello Stato islamico.

Le reti jihadiste ispirate ad al-Qa’ida hanno costituito la base dell’emigrazione jihadista dall’Europa alla Siria e all’Iraq sino a tutto il 2015: le reti europee collegate al movimento Sharia4 hanno rappresentato il punto di riferimento per i gruppi radicali europei impegnati nell’inviare combattenti e supporto finanziario in Siria e Iraq. L’ascesa al potere dello Stato islamico a partire dalla fine del 2014, è poi riuscita a far (temporaneamente) eclissare al-Qa’ida dal panorama jihadista, almeno quello comunicativo.

Ma se lo Stato islamico ha perso, insieme alla sua natura territoriale, anche parte della spinta mediatica e comunicativa, la maggior parte dei social network e dei leader di al-Qaida in Europa è riuscita a sopravvivere all’Isis, dando inizio a una nuova battaglia, quella per “i cuori e le menti”, che è appena all’inizio.

A guardare l’attuale situazione in Europa, Medio Oriente e in Nord Africa, ci possiamo rendere conto di come i principali modelli organizzativi dell’attività del terrorismo islamista – in termini di struttura, reclutamento e formazione – non siano cambiati in modo significativo, ma si siano evoluti in maniera estremamente efficace.

La fine territoriale dello Stato islamico ha portato il movimento a reinterpretare la propria natura originale, basata su un approccio insurrezionale clandestino (principalmente nelle aree sunnite in Iraq) a cui si sono affiancati due linee d’azione: da un lato la delocalizzazione e i franchise in Afghanistan, Libia e in Africa i cui attori principali sono i gruppi locali a cui si sono uniti i reduci fuggiti dal fronte siriano; dall’altro lato l’espansione all’interno dell’arena globale, inclusa l’Europa, in cui le azioni sono lasciate all’iniziativa individuale e delle cellule.

JIHADISTI IN EUROPA

Relativamente a età e genere, il 70% dei terroristi europei sono nati negli anni Ottanta e Novanta, dunque relativamente giovani, sebbene un 20% sia costituito da soggetti nati prima del 1980: un elemento interessante poiché pone in evidenza la presenza di una quota importante di uomini di “mezza età” al fianco della massa più giovane.

Le donne hanno svolto e svolgono un ruolo molto più attivo di quanto non sia stato posto in evidenza, e rappresentano una minaccia crescente; delle circa 650 partite dall’Europa per il fronte siriano e iracheno, 21 hanno fatto rientro in Belgio e 28 in Francia.

I bambini al di sotto dei dieci anni rappresentano un problema estremamente serio e una potenziale minaccia alla sicurezza europea per il futuro. Delle centinaia di bambini che avrebbero lasciato l’Europa, 16 sono rientrati in Belgio e 68 in Francia; gli altri sono detenuti in Iraq e Siria, altri trasferiti in paesi terzi con almeno uno dei genitori, ma della maggior parte non si sa nulla.

Se da un lato i convertiti radicalizzati pongono seri problemi in termini securitari, ma anche culturali e sociali, va posta una particolare attenzione alle carceri che continuano a svolgere un ruolo fondamentale sia nell’attivazione che nel rafforzamento del processo di radicalizzazione.

L’origine etnica e geografica dei terroristi jihadisti si impone come importante elemento e strumento di analisi e nel monitoraggio delle reti e delle cellule jihadiste. I gruppi principalmente afflitti dall’adesione al modello jihadista sono quelli marocchini (in Belgio, Spagna e Italia), algerini (in Francia), turchi (in Germania e Paesi Bassi).

Infine, una considerazione sulla questione che si concentra sul possibile collegamento tra immigrati e terrorismo: dal gennaio 2014, 44 rifugiati o richiedenti asilo sono stati coinvolti in 32 complotti jihadisti in Europa. Sebbene la maggior parte di questi soggetti si sia radicalizzata prima dell’ingresso in uno dei Paesi europei, tuttavia i processi di radicalizzazione avviati dopo l’arrivo in Europa sono divenuti più comuni a partire dall’autunno del 2016. Nel complesso, il periodo di latenza tra l’arrivo in Europa e la partecipazione a un’azione terrorista in genere associata allo Stato islamico (di successo o sventata) è di 26 mesi.

In conclusione, più della metà dei jihadisti sono nati in un Paese dell’Unione Europea, l’11% sono immigrati naturalizzati o di prima generazione, mentre solo il 17% sono terroristi “stranieri”, cioè cittadini non comunitari che non avevano precedentemente vissuto in Europa.

LA SITUAZIONE IN EUROPA

Sebbene gli attacchi diretti ed effettivamente collegati allo Stato islamico abbiano meno probabilità di verificarsi nei Paesi europei dove la sicurezza è stata significativamente rafforzata, gli attacchi emulativi ispirati allo Stato islamico rappresentano una minaccia potenzialmente in crescita. Usando la sofisticata ed efficace propaganda, gli jihadisti si rivolgono direttamente ai potenziali “combattenti” del jihad incitandoli ad agire nel paese di residenza. È un quadro in cui il terrorismo nostrano definisce una tendenza alla  violenza particolarmente preoccupante e in cui la minaccia futura dipende da come l’uditorio, a cui il sedicente “califfo” al-Baghdadi si rivolge, seguirà i suoi appelli ad aderire alla “guerra di logoramento” contro le nazioni “crociate”, al centro delle nuove minacce di terrorismo che provengono dallo Stato islamico. A tale fattore si inserisce la volontà di al-Qa’ida di riconquistare quel terreno perso negli anni dello Stato islamico territoriale; una volontà che potrà manifestarsi attraverso la condotta di azioni spettacolari ed eclatanti, dal forte impatto mediatico e comunicativo.

Nel complesso i Paesi europei affrontano una minaccia terroristica estremamente concreta a causa dell’alto numero di foreign terrorist fighter, della presenza di reti jihadiste sviluppate e della vicinanza geografica alle zone di guerra.


L’impatto dello Stato Islamico nel Grande Sahara sulla sicurezza nel Sahel

di Marco Cochi

articolo originale pubblicato sull’Osservatorio strategico – Ce.Mi.S.S.: vai al Report

Nel primo giorno di Ramadan del 2014, lo sceicco Abu Bakr al-Baghdadi, leader dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIL), annunciò la restaurazione del Califfato e decise di cambiare il nome del gruppo in Stato Islamico. Il proclama indusse migliaia di combattenti stranieri a decidere di partire alla volta della Siria e dell’Iraq per unirsi alle milizie del nuovo Califfato.

Quattro mesi più tardi, attraverso i suoi organi di propaganda: al-Furqan e Dabiq, l’organizzazione terroristica annunciò che altri gruppi jihadisti avevano dichiarato la loro affiliazione al Califfato, assumendo la denominazione di province (wilayat) dello Stato Islamico. Tuttavia, prima di giurare fedeltà al califfo al-Baghdadi, questi gruppi avrebbero dovuto mettere in atto la strategia militare e il sistema di governo del nucleo centrale.

Nel tempo, le wilayat si sono rivelate fondamentali per portare avanti l’apocalittico progetto di egemonia fondamentalista salafita di al-Baghdadi, poiché la loro fedeltà si è rivelata di enorme aiuto per consentire allo Stato Islamico di continuare a esercitare la propria valenza, anche dopo la perdita dei territori siro-iracheni. Mentre è sempre più evidente che se nel 2018 le province avessero deciso di abbandonare l’organizzazione, l’avrebbero totalmente delegittimata e dimostrato che in realtà era solo uno Stato sulla carta.

Invece, negli anni, le filiali dello Stato Islamico sono significativamente aumentate di numero consentendo all’entità jihadista di poter contare su una consistente e articolata rete, anche dopo la sua deterritorializzazione. Tutto questo, tenendo presente che ogni branca dell’organizzazione è operativamente indipendente e non vi sono collegamenti diretti tra i vari gruppi affiliati, a parte il brand ISIS.

Le wilayat continuano ad operare in diverse parti del mondo, anche in Africa sub-sahariana, dove la povertà unita alla marginalizzazione socio-economica delle comunità locali hanno favorito il processo di radicalizzazione di molti giovani e lo sviluppo del terrorismo jihadista in diverse aree della macro-regione.

In Africa, l’ISIS ha decentralizzato le sue province in Egitto e Libia, ma anche nella fascia sub-sahariana e nel Sahel, dove il gruppo si sta espandendo approfittando delle particolari difficoltà per mettere in sicurezza quelle vaste aree desertiche. Un’ulteriore conferma dell’importanza che l’Africa riveste per lo Stato Islamico arriva dal video messaggio di al-Baghdadi, diffuso da al-Furqan lo scorso 29 aprile, in cui il Califfo si è rivolto ai mujaheddin in Sahel, incitandoli al jihad contro gli eserciti occidentali e a vendicare gli attacchi subiti dallo Stato Islamico in Siria e Iraq.

Nello stesso comunicato, pubblicato sulla rete pochi giorni dopo la rivendicazione di un attentato nella regione nord-orientale della Repubblica Democratica del Congo (RDC), il leader dell’ISIS ha confermato l’istituzione dell’ISCAP (Islamic State Central Africa Province), la nuova provincia dell’organizzazione jihadista in Africa Centrale. Inoltre, al-Baghdadi ha avvallato il riconoscimento formale del giuramento di fedeltà dell’emiro dello Stato Islamico nel Grande Sahara (ISGS – Islamic State in the Greater Sahara), formazione jihadista che merita di essere oggetto di un’attenta disamina per la sua elevata letalità, che l’ha resa tra le più pericolose della regione.

Una letalità dimostrata dal fatto che nel 2018 l’ISGS è stato collegato al 26% di tutti gli eventi violenti e al 42% di tutti i decessi avvenuti nel corso di attacchi associati ai gruppi estremisti islamici attivi nel Sahel. E se sarà confermato il trend di attacchi dei primi sei mesi dell’anno in corso, l’ISGS sarà il gruppo che nel 2019 avrà causato più vittime rispetto alle altre formazioni jihadiste che operano nella vasta regione desertica.

Il gruppo estremista saheliano è diventato tristemente noto a livello internazionale per un attentato compiuto in Niger il 4 ottobre 2017, nel villaggio di Tongo Tongo. In questo remoto sobborgo, a una ventina di chilometri dal confine con il Mali, furono uccisi cinque soldati nigerini e quattro militari statunitensi: il sergente di prima classe Jeremiah W. Johnson, il sergente La David Johnson e i due sergenti maggiori dei berretti verdi Bryan Black e Dustin Wright.

L’atto terroristico ha suscitato l’indignazione dell’opinione pubblica americana, soprattutto per il fatto che prima di fuggire le milizie jihadiste saheliane fedeli allo Stato Islamico hanno tolto le armi e le attrezzature militari ai quattro americani caduti, tentando di portare via almeno due dei corpi dal campo di battaglia… (vai al report)