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La Nato fa un passo indietro. La Cina ne fa uno avanti in Afghanistan e sulla “Nuova Via della Seta”

di Claudio Bertolotti

La base militare cinese “per” l’Afghanistan

La Cina, a conferma di un approccio maggiormente assertivo e in un’ottica di sostanziale tutela dei propri interessi, ha da tempo optato per l’impiego dello strumento militare al di fuori dei propri confini nazionali. Dopo la base militare di Gibuti, in Africa, Pechino ha deciso all’inizio del 2019 di allestire una propria base in Tagikistan, ubicata a 12 chilometri a nord del corridoio afghano di Wakhan. Un’area che è un passaggio strategico non solamente per la Cina, ma per tutta l’Asia meridionale; si tratta di una striscia di territorio afghano della provincia di Badakhshan, chiuso ai suoi lati dal Tagikistan, a nord, il Pakistan e il Gilgit-Baltistan – regione del Kashmir occupata dal Pakistan – che porta direttamente alla Cina, o meglio l’area del Tashkurgan nella problematica regione cinese dello Xinjiang abitata dai cinesi musulmani uyghuri. Zona in cui, come abbiamo visto, la Cina è impegnata a reprimere in maniera molto energica l’opposizione del fondamentalismo islamico uyghuro.

Una scelta orientata a tutelare la grande opera strategica della “Nuova Via della Seta”

Una scelta, quella cinese, che è orientata a tutelare la grande opera strategica della “Nuova Via della Seta “ (Obor – One Belt One Road), parte integrante della visione strategica del presidente Xi Jinping, e con essa il corridoio economico cino-pakistano.

La base, collocata in prossimità di Kyzylrabot, in territorio tagico, a 12 chilometri dal corridoio afghano di Wakhan e a 30 dal confine cinese, è logisticamente servita da una strada asfaltata a doppia corsia di circa 100 chilometri che la collega al posto di controllo di frontiera di Kumla. La struttura è costituita da tre edifici principali più uno secondario e ospita alcuni veicoli medi protetti da ricognizione e una pista di atterraggio per elicotteri ma, come dimostrano alcune rilevazioni satellitari, dispone di molto spazio per futuri possibili ampliamenti, compreso un potenziale aeroporto.

La Cina come “sponsor” della stabilità in Afghanistan

La Cina, dopo quasi due decenni dall’abbattimento del regime talebano, senza essere coinvolta nella lunga guerra e a fronte del disimpegno della Nato, è riuscita a proporsi come valida alternativa, implementando il proprio ruolo di «sponsordella stabilità» in Afghanistan, ruolo che avrà sempre più maggior peso a mano a mano che le truppe occidentali tenderanno a diminuire. Sebbene non direttamente sul campo di battaglia, la Cina è entrata, sul piano politico, economico e diplomatico, a pieno titolo tra gli attori del nuovo grande gioco afghano.


La crisi nella regione anglofona del Camerun

di Marco Cochi

articolo originale pubblicato su Osservatorio Strategico Ce.Mi.S.S. 2/2018

La crisi che da più di due anni affligge le provincie anglofone del Camerun ha avuto inizio con uno sciopero indetto da un consorzio di avvocati, che l’11 ottobre 2016 ha chiamato a raccolta i suoi iscritti per protestare contro l’utilizzo del francese nei tribunali locali e la scarsa conoscenza delle procedure anglosassoni da parte dei colleghi francofoni. Nessuno però poteva prevedere che la contestazione avrebbe rilanciato le spinte secessioniste nelle due provincie abitate dalla minoranza di lingua inglese, che rappresenta il 20% dei quasi venticinque milioni di abitanti del Paese africano.

Le prime avvisaglie della ribellione hanno cominciato a manifestarsi nei giorni seguenti, quando, alla mobilitazione forense, si è unito anche il sindacato degli insegnanti, che lamentava la presenza di troppi professori di lingua francese nel sottosistema scolastico-educativo anglofono. Alla protesta dei docenti hanno aderito anche gli studenti, ai quali è stato chiesto di non entrare in aula finché le rivendicazioni non fossero state prese in considerazione dal governo.

il dissenso e la ribellione sono dilagati

Dalle pacifiche manifestazioni di piazza si è arrivati ben presto alle violenze, che hanno raggiunto un punto di non ritorno tra il 21 e il 22 novembre 2016. In questi due giorni a Bamenda, capitale della provincia anglofona del Nord-ovest, durante un sit-in sono scoppiati dei tumulti sedati dalle forze dell’ordine che hanno aperto il fuoco sulla folla. Alla fine, la polizia ha ucciso un attivista anglofono e ha ferito dieci persone, oltre ad arrestare più di cento manifestanti.

Trascorsi più di due anni, il dissenso e la ribellione sono dilagati in entrambe le provincie del Nord-ovest e del Sud-ovest, mentre le manifestazioni di piazza si sono trasformate nella più grave crisi che ha colpito il Camerun dal tempo dell’indipendenza. 

Secondo i dati raccolti all’inizio dello scorso ottobre dall’International Crisis Group, la violenta repressione, condotta dai militari durante gli scontri con i diversi gruppi secessionisti, ha provocato la morte di circa 500 civili e di centinaia di insorti; mentre negli attacchi armati ad opera dei ribelli hanno perso la vita almeno 185 membri dei servizi di sicurezza. Molto critica è anche l’emergenza umanitaria prodotta dalla crisi che, secondo recenti stime dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli affari umanitari e l’Alto commissariato per i rifugiati, ha provocato 436mila sfollati interni e costretto oltre 30mila civili a cercare rifugio in Nigeria. L’instabilità ha inciso anche sulla sicurezza alimentare delle aree anglofone, con circa mezzo milione di persone che si trovano a dover affrontare una grave emergenza.

i soldati camerunesi hanno risposto agli attacchi con brutali ritorsioni

Un recente report di Human Rights Watch (HRW) ha rilevato che sia le forze governative che i separatisti armati hanno commesso gravi violazioni nei confronti di civili nella parte occidentale del Paese. Tra i vari abusi segnalati nel rapporto sono compresi rapimenti e uccisioni da parte dei separatisti, che hanno anche sequestrato studenti e ordinato la chiusura di alcune scuole. Di contro, i soldati camerunesi hanno risposto agli attacchi con brutali ritorsioni, incendiando interi villaggi, uccidendo civili, arrestando e torturando sospetti separatisti nella regione anglofona.

Per avere un’idea più precisa del livello raggiunto dallo scontro, è importante osservare che per reprimere la rivolta il governo di Yaoundé ha mobilitato il Battaglione di intervento rapido (BIR), un’unità d’élite dell’esercito camerunense impiegata nella lotta ai jihadisti nigeriani di Boko Haram. I soldati del BIR sono stati accusati di aver perpetrato gravi violazioni nei confronti della popolazione civile della regione meridionale del Camerun e secondo quanto riportato da un sacerdote cattolico di Bamenda, sarebbero responsabili della morte di centinaia di bambini.

La drammatica evoluzione della crisi è visivamente tangibile nel gran numero di videoclip ampiamente condivisi sui social media, alcuni dei quali sono stati analizzati dalla BBC Africa Eye. I filmati, talvolta confusi e difficili da verificare, mostrano villaggi dati alle fiamme, esecuzioni e torture. Ad alimentare il conflitto c’è anche un’accesa retorica, che ha visto dapprima i militari etichettare i separatisti anglofoni come “terroristi”, che a loro volta hanno accusato l’esercito di aver orchestrato un “genocidio” per sterminare la popolazione anglofona.

Marco Cochi, da oltre 16 anni è giornalista professionista con focus sull’Africa. Svolge attività di ricerca presso il CeMiSS per il monitoraggio e la produzione di analisi strategica sull’area tematica Africa sub-sahariana e Sahel ed è analista presso il think tank Il Nodo di Gordio. Docente del Corso in Terrorismo e le sue mutazioni geopolitiche alla SIOI (Società italiana per le organizzazioni internazionali) di Roma e membro della Faculty del Master in Peacebuilding and International Cooperation attivato presso la Link Campus University. Per i tipi di Castelvecchi ha da poco pubblicato “Tutto cominciò a Nairobi. Come al-Qaeda è diventata la rete jihadista più potente dell’Africa”.


Radicalismo islamico. Pianificare ‘alla svizzera’

Se la Confederazione elvetica non è un bersaglio prioritario per lo Stato Islamico o altri gruppi estremisti del medesimo stampo, l’esistenza di connessioni svizzere dentro le reti jihadiste internazionali non è nuova ed è stata dimostrata anche da alcune inchieste internazionali.

Secondo i dati ufficiali, i sospetti foreign fighters svizzeri ad aver raggiunto fronti di guerra dal 2001 ad oggi sono 93. Le partenze si sarebbero fermate da oltre un paio d’anni e avere un’idea oggi, dell’ampiezza di quel cono d’ombra che precede la violenza -cioè la radicalizzazione-, rimane un’impresa difficile.

ASCOLTA IL REPORTAGE ‘RADICALISMO ISLAMICO. PIANIFICARE ALLA SVIZZERA’ -trasmesso dal programma ‘Laser’ – RSI Rete Due (11 febbraio 2019 – copyright RSI)

Il reportage discute alcune caratteristiche svizzere del fenomeno ma comprende anche un ragionamento più ampio attorno ai contesti della radicalizzazione con l’aiuto di tre interlocutori.

Fabien Merz, ricercatore e analista che si occupa di jihadismo e terrorismo al Centre for Security Studies del Politecnico di ZurigoElham Manea, professoressa associata di scienze politiche all’Università di Zurigo, specialista di Medio Oriente e Islam politico, e attivista per i diritti umani; Naima Serroukh, impegnata sul territorio con la comunità musulmana, a Bienne (Canton Berna) ha avviato Tasamuh -tolleranza, in arabo- che nel 2015 era la prima iniziativa di prevenzione del suo genere.


Un ponte tra i parlamenti dell’area mediterranea

Convegno a Roma, 5 febbraio 2019 – Nuova Aula dei Gruppi Parlamentari – Via Campo Marzio 78

Nel 2018 l’Italia ha assunto la presidenza del programma 5+5 Defence Initiative, un forum nato nel 2004 per la cooperazione tra i Paesi del Mediterraneo Occidentale, in particolare tra i cinque Paesi della costa settentrionale europea (Francia, Italia, Malta, Portogallo e Spagna) ed i cinque Paesi della costa meridionale africana (Algeria, Libia, Marocco, Mauritania e Tunisia).
Obiettivo del co
nvegno è di estendere l’iniziativa a livello interparlamentare tra gli stessi Paesi del programma 5+5 Defence in tema di cooperazione internazionale e gestione dei fenomeni migratori affinché l’istituzionalizzazione del dialogo diventi un momento di condivisione di buone pratiche e di abbattimento delle distanze tra popoli che vivono a stretto contatto tra loro.

Una parte della discussione farà riferimento ai temi caldi dell’immigrazione, criminalità e terrorismo, che per essere compresi e gestiti necessitano di un dialogo continuo e a 360 gradi. Una relazione su questo tema sarà a cura di Claudio Bertolotti, Direttore di START InSight. 

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