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Elezioni in Pakistan: il punto

Le strategie politiche del Pakistan post-elezioni subiranno una significativa influenza della componente militare

di Claudio Bertolotti

Alla testa della competizione elettorale si è imposto il Movimento per la giustizia del Pakistan, fondato e guidato dall’ex campione di cricket Imran Khan; partito centrista e islamista, in odore di accordo con i militari, che ha trovato ampio consenso tra i giovani e il sostegno dei movimenti islamisti radicali.

Segue poi la Lega musulmana del Pakistan che vinse le precedenti elezioni del 2013, del già primo ministro Nawaz Sharif ora in carcere per corruzione; è un movimento formato da conservatori, ma in contrapposizione a quell’esercito che nella storia del Pakistan ha sempre rappresentato un elemento forte e anti-democratico. La lega musulmana del Pakistan, ora si sta opponendo al risultato elettorale che consegna il paese in mano al movimento islamista di Imran Khan.

Infine, più marginale, il Partito popolare pakistano, forza laica e progressista che fu fondato da Ali bhutto nel 1967, ucciso nel 1979 dopo il colpo di stato militare. Seguono gli altrei 119 partiti politici che hanno partecipato alla competizione elettorale per guidare il paese in un momento economicamente molto difficile.

Ciò che ha caratterizzato la campagna elettorale è stato un sostanziale cambio di approccio, anche sul piano comunicativo: in primo luogo è stata registrata una rilevante partecipazione femminile, tra i candidati e gli attivisti (in tutti gli schieramenti); inoltre si è imposto un massiccio intervento dell’esercito, e un forte coinvolgimento della classe media, della componente conservatrice sunnita e di ampie fasce di elettorato del Punjab; infine, ha influito la scelta della Lega musulmana di contrapporsi apertamente ai militari e al candidato da questi appoggiato, Imran Khan.

Quali conseguenze sulle strategie politico-militari del Pakistan?

Le strategie politico-militari del Pakistan post-elezioni subiranno una significativa influenza della componente militare che ha condizionato lo svolgimento delle consultazioni elettorali, sia influendo sui tribunali nell’esclusione dei candidati politici antagonisti, sia durante lo stesso spoglio delle schede elettorali con i suoi 371mila soldati. Militari che, attraverso il premier Imran Khan del Movimento per la giustizia del Pakistan – sostenuto anche dai gruppi islamisti radicali – tenteranno di recuperare quell’influenza e quei poteri limitati durante il governo di Nawaz Sharif.

La situazione politica pakistana è estremamente complicata. In primo luogo perché i risultati elettorali potrebbero imporre accordi con i partiti minori. In secondo luogo perché bisogna tener conto del ruolo delle forze armate, e ancor più dei servizi segreti dell’ISI anche per la sicurezza interna, sempre più minacciata dai gruppi di opposizione armata tra i quali spiccano i talebani pakistani e il cosiddetto Stato Islamico-Khorasan.

Contano inoltre, e non sono secondarie, le questioni di politica estera regionale, si in un contesto di buon vicinato e collaborazione con la Cina (in virtù degli importanti investimenti cinesi in Pakistan e della collaborazione sul piano del contenimento dello jihadismo che coinvolge sempre più la componente musulmana cinese uigura) sia nel rapporto competitivo con l’India, con cui rimane aperta l’annosa e sanguinosa questione del Kashmir nella quale sia i servizi che i militari pakistani sono impegnati nel sostegno a gruppi terroristi jihadisti.

I riflessi pakistani sulla stabilità dell’Afghanistan

In primo luogo si impongono le dinamiche afghane a cui il Pakistan guarda con grande attenzione, a partire dall’avvicinamento tra alcune componenti talebane e il governo di Kabul e dal ruolo giocato dai gruppi jihadisti pakistani come il Lashkar e-Toiba nel colpire gli obiettivi indiani anche in Afghanistan.

Sul piano politico il Pakistan intende imporre la propria visione e i propri tempi, mantenendo quel rapporto di collaborazione con i Talebani e proseguendo nel ruolo di attore di primo piano in un dialogo negoziale che sembra non giungere mai a un termine, in parte anche a causa dello stesso Pakistan che è parte insieme a Cina, Afghanistan e Stati Uniti, del Quadrilateral Coordination Group finalizzato proprio al negoziato i cui risultati sono tutt’altro che soddisfacenti.

I talebani, dall’altra, a rischio di frantumazione a causa delle competizioni interne per la leadership e alle prese con un limitato ma crescente fenomeno stato islamico-Khorasan, la succursale afghano-pakistana-indiana del cosiddetto Stato Islamico.

Infine il governo afghano, incapace di governare e in balia di un offensiva insurrezionale che controlla circa il 40% del paese.

E in Afghanistan ad ottobre si andrà a votare per leggere il nuovo parlamento e l’anno prossimo ci saranno le elezioni presidenziali.


Osservatorio Strategico del CeMiSS: C. Bertolotti è l’analista dell’area “Maghreb, Mashreq, Egitto e Israele”

Il CeMiSS è un pilastro istituzionale del “pensiero strategico”. Elemento chiave funzionale alla difesa e al perseguimento dell’interesse nazionale.

di Claudio Bertolotti

Una delle prime decisioni che il ministro della Difesa Elisabetta Trenta ha voluto rendere concreta è quella relativa alla rivitalizzazione del CeMiSS, il Centro Militare di Studi Strategici, fondato dal Generale Carlo Jean nel 1987.

La principale pubblicazione del CeMiSS è l’Osservatorio Strategico, pubblicazione periodica in italiano e inglese, che si avvale dei principali analisti ed esperti civili e militari nazionali, chiamati ad esprimere le loro valutazioni e previsioni su tematiche di interesse nazionale, al fine di creare un utile strumento per i decisori politici, per le commissioni parlamentari e, più in generale, per il vasto pubblico.

L’Osservatorio Strategico è suddiviso in 11 aree tematiche: “America Latina”, “Asia meridionale e orientale”, “Balcani e Mar Nero”, “Iniziative europee di Difesa e sviluppo tecnologico”, “Mashreq, Gran Maghreb, Egitto e Israele”, “Area Euro-Atlantica”, “Russia, Asia centrale e Caucaso”, “Sahel e Africa Sub Sahariana”, “Corno d’Africa e Africa Meridionale”, “Golfo Persico”, “Pacifico”.

Dopo un periodo di stand-by voluto dal precedente governo, che si è concretizzato nell’interruzione dell’importante pubblicazione, il lavoro dei ricercatori torna finalmente al servizio dei lettori, decisori o semplici interessati.

Oggi, dopo una severa selezione, il Comitato Esecutivo del CeMiSS ha formalmente incaricato Claudio Bertolotti di monitorare e produrre analisi strategica sull’area tematica Mashreq, Gran Maghreb, Egitto e Israele, con particolare attenzione all’area del Mediterraneo Occidentale, che già segue in qualità di rappresentante italiano e ricercatore senior presso il CEMRES, l’Istituto di Ricerca euro-maghrebino di Tunisi. Incarico che si aggiunge al rapporto di collaborazione con il CeMiSS che va avanti ininterrottamente dal 2009, come Direttore di Ricerca, Analista strategico (sull’Afghanistan, l’area mediterranea e il terrorismo), e che lo vede impegnato oggi anche in qualità di Direttore della Ricerca sull’Analisi dei flussi migratori nei paesi del Maghreb“.


NATO e Afghanistan (ISPI)

IL SUMMIT E IL FUTURO DELLA GUERRA

di Claudio Bertolotti

articolo originale pubblicato per ISPI, Commentary 13 luglio 2018

I capi di stato e di governo si sono incontrati a Bruxelles l’11-12 luglio in occasione del 29.° Summit della NATO, a cui hanno preso parte i 29 paesi membri – per l’Italia il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, accompagnato dai ministri Elisabetta Trenta (Difesa) ed Enzo Moavero Milanesi (Affari Esteri) –, 20 paesi partner e i rappresentanti delle Nazioni Unite, dell’Unione Europea, della banca mondiale e la rappresentanza parlamentare dei paesi NATO.

Il focus della NATO rimane il fronte dell’Est, ma con uno sguardo anche a sud

Dalla Readiness Initiative “Four-Thirties” – prevalentemente in funzione di capacità sul fianco orientale – alla mobilità militare, passando per l’Hub di Napoli e l’impegno contro il terrorismo attraverso una nuova missione di addestramento in Iraq e un maggiore sforzo a supporto dei partner dell’area mediorientale e nord africana, in particolare Tunisia e Giordania. In un quadro di discussione generale in cui l’argomento cardine è stato l’impegno degli alleati al mantenimento della NATO attraverso una più equa condivisione degli oneri (burden-sharing), è stata anche discussa quella che dovrà essere la capacità operativa dell’Alleanza Atlantica in un’ottica di maggiore deterrenza e difesa. Questa la sintesi del summit della NATO il cui documento finale, che si basa sul consenso unanime dei 29 Alleati: un impegno di massima che tiene conto delle ambizioni e dei diversi interessi nazionali, in primis quello statunitense.

Tra i temi sul tavolo, non il principale ma certamente quello che tiene vincolata la NATO da ormai 18 anni, la guerra in Afghanistan e l’impegno per il futuro dell’Alleanza con il governo di Kabul.

L’Afghanistan rimane nell’agenda della NATO fino al 2024

L’ultimo Summit era stato quello di Varsavia, a luglio 2016, e in tale occasione la questione afghana era già stata posta in secondo piano, in un’ottica del progressivo disimpegno – la “transizione irreversibile” – annunciato quattro anni prima dall’allora presidente Barack Obama, in occasione del Summit NATP di Chicago del 2012. Un disimpegno formale a cui si è affiancato l’onere concreto di continuare ad assistere l’Afghanistan, in termini di risorse economiche e materiali, sino al 2020 attraverso il proseguimento di “Resolute Support“, la missione di addestramento, assistenza e consulenza a favore del governo afghano e, in particolare, delle sue forze di sicurezza.

Il 29.° Summit di Bruxelles, in linea con gli indirizzi e gli impegni precedenti, si è chiuso il 12 luglio con un nuovo incontro sull’Afghanistan al termine del quale sono stati confermati gli impegni precedenti e ne sono stati formalizzati di nuovi. A fronte della dichiarazione formale di intenti, ciò che più premeva agli Alleati era la conferma dell’impegno della NATO in Afghanistan sino a tutto il 2024, impegno contenuto al punto n.53 (di 79) della dichiarazione congiunta. Così è stato. Un esito certamente scontato, ma la posizione ufficiale dell’Alleanza è un passaggio formale necessario che andava espletato attraverso il manifesto e unanime consenso.

Molto soddisfatto il governo afghano, presente a Bruxelles con i due massimi rappresentanti – il presidente Ashraf Ghani e il primo ministro esecutivo Abdullah Abdullah –, che ottiene molto: il rinnovo fino al 2024 del sostegno economico all’Afghanistan, attualmente stabilito nella cifra di 3 miliardi di dollari l’anno fino al 2020 da parte della comunità internazionale, di cui 1,5 a carico dell’Unione Europea, e altri 5 miliardi a carico degli Stati Uniti, dei quali 4 destinati al mantenimento dell’apparato di sicurezza e difesa e 1 per lo sviluppo di progetti di assistenza civile.

Ossigeno per le casse di uno stato le cui entrate annuali derivano al 70 percento dagli aiuti internazionali e il cui bilancio è impegnato al 42 percento da spese per la difesa.

Dunque dalla “transizione irreversibile” alla conferma di una presenza militare di lungo termine che prevede, oltre al supporto finanziario necessario al mantenimento dell’apparato di difesa e sicurezza, anche la rimodulazione del dispiegamento di truppe sul terreno, tra chi si è impegnato ad aumentarlo e chi, invece, vorrebbe ridurre la presenza di proprie truppe sul terreno.

La dichiarazione congiunta, le conseguenze e le criticità

La NATO riafferma il suo “impegno a garantire la sicurezza e la stabilità a lungo termine in Afghanistan“. Un impegno mai venuto meno, pur a fronte di un significativo ridimensionamento delle truppe sul terreno a partire dal 2012, momento in cui erano schierati nel paese circa 140.000 militari delle due missioni ISAF (International Security Assistance Force), a guida NATO, ed “Enduring Freedom”, l’operazione di combattimento statunitense svincolata dall’Alleanza Atlantica. Un ridimensionamento che ha portato gli attuali numeri dello sforzo militare sotto le 20.000 unità, schierate con la Resolute Support della NATO e la Freedom’ Sentinel statunitense (erede di Enduring Freedom e composta prevalentemente da forze speciali e unità di attacco aereo), e che, nel cedere la responsabilità alle forze di sicurezza afghane, ha portato i talebani e gli altri gruppi di opposizione armata – tra i quali il sempre più minaccioso Stato islamico-Khorasan, emanazione del movimento di Abu Bakr al-Baghdadi in Siria e Iraq – ad occupare circa il 40 percento del paese, a danno del governo nazionale.

Le forze della NATO, così come sono oggi impiegate e strutturate, non possono fare nulla né per contrastare l’avanzata talebana, né per consentire alle forze di sicurezza di Kabul di operare con adeguata capacità, tenuto conto che più della metà dei reparti afghani non è in grado di condurre operazioni in maniera autonoma e che i tassi di diserzione e abbandono sono in costante aumento. Una situazione che contrasta con quanto riportato nella dichiarazione congiunta in cui viene affermato che la missione Resolute Support: “sta ottenendo successo nell’addestramento, nella consulenza e nell’assistenza alle forze nazionali di difesa e sicurezza afghane“.

Ma la parte più interessante, e più attesa dalle parti in causa, è l’impegno dell’Alleanza a proseguire con il “sostegno finanziario alle forze afghane fino al 2024” e la promessa “di colmare le carenze di personale, specialmente nelle aree prioritarie“.

In primo luogo non sfugge il termine fissato per il proseguimento degli aiuti al governo afghano, il 2024, che coincide con la scadenza formale del Security and Defense Cooperation Agreement (che include lo Strategic Partnership Agreement siglato nel 2012) tra Afghanistan e Stati Uniti, firmato dal presidente Ghani e dall’omologo statunitense Obama nel 2014. Un accordo che prevede, in estrema sintesi, l’utilizzo esclusivo delle basi strategiche occupate dalle forze statunitensi su suolo afghano e che potrà essere rinnovato previo consenso diretto tra i due rispettivi ministri della Difesa. La posizione strategica di tali basi è funzionale alla politica di contenimento e controllo statunitense nell’area, tenuto conto che il raggio operativo degli equipaggiamenti lì schierati consente di agire potenzialmente in Iran, nelle ex-repubbliche centro asiatiche, in Russia, Cina, Pakistan e India. Dunque, molte ragioni (statunitensi) per rimanere, nessuna per andarsene.

In secondo luogo, relativamente all’impegno di colmare le carenze di personale, gli Stati Uniti – che sarebbero impegnati in un’ulteriore revisione della strategia per l’Afghanistan – hanno già aumentato il proprio contingente e potrebbero incrementarne gli organici nel breve periodo. Non ha stupito dunque la disponibilità del Primo ministro britannico Teresa May a raddoppiare le truppe del Regno Unito in Afghanistan, portandole da 650 a 1.100. In direzione opposta andrebbe – il condizionale è d’obbligo – l’Italia, il cui ministro della Difesa Elisabetta Trenta, in linea con quanto aveva deciso il precedente esecutivo, punterebbe a un ridimensionamento dello sforzo militare italiano (portando le truppe da 900 a 700) in favore di altri teatri operativi più vicini all’interesse strategico nazionale, come il Libano, la Libia e il Niger; una scelta, quella italiana da avviare in coordinamento e sulla base della disponibilità degli altri partner dell’Alleanza a compensare “l’alleggerimento” italiano. Ma è pure vero che non sono i numeri a fare la differenza in questo momento (comunque troppo esigui), bensì la tipologia di truppe e i loro limiti di impiego. Meglio un contingente ridotto ma operativo, anche in un’ottica di cooperazione paritetica e bilanciata tra gli alleati. In altri termini: se gli Stati Uniti combattono, è opportuno che lo facciano anche gli alleati.

Infine, l’ultima parte del solo punto dedicato all’Afghanistan si concentra sul ruolo degli attori regionali nel “sostegno della pace e della stabilizzazione in Afghanistan” invitati “a cooperare più strettamente nella lotta al terrorismo, a migliorare le condizioni per lo sviluppo economico, a sostenere gli sforzi di pace e riconciliazione del governo afghano e a prevenire qualsiasi forma di supporto all’insurrezione“, con particolare riguardo a “Pakistan, Iran e Russia” invitati “a contribuire alla stabilità regionale sostenendo pienamente un processo di pace guidato dall’Afghanistan”. Un invito che, se da un lato apre le porte ai principali attori regionali, dall’altro segue i richiami che gli Stati Uniti hanno in più occasioni rivolto ai tre paesi accusati, in maniera diretta e indiretta, di sostenere i gruppi insurrezionali ai fini delle proprie agende nazionali o in opposizione all’impegno degli Stati Uniti in Afghanistan.

Nessun riferimento alla Cina, che in Afghanistan riveste un ruolo di primo piano nello sviluppo infrastrutturale, attraverso la costruzione di strade e l’estrazione mineraria, e nel processo negoziale con i talebani, formalmente invitati e ospitati in Cina in più occasioni a partire dal 2015. Beijing ha bisogno di un’area stabile ai propri confini, questo per ragioni di politica interna (il rischio di allargamento delle istanze autonomiste unite al crescente jihadismo degli uiguri, la minoranza musulmana dello Xinjiang) e di sostenibilità degli investimenti all’estero, in primo luogo la “”uova Via della Seta” (o OBOR – One Belt, One Road) che, pur non attraversando l’Afghanistan, ne lambisce i confini.

Una nuova strategia degli Stati Uniti?

I tale quadro, che ha visto la partecipazione dei capi di stato delle principali potenze mondiali, rimane un’incognita, che avrà la capacità di condizionare l’esito di qualunque decisione presa a Bruxelles. La reazione dei talebani e degli altri gruppi di opposizione armata, in primo luogo lo Stato Islamico-Khorasan.

I primi, in grado di controllare una parte consistente del paese ma afflitti da un processo di frammentazione e competizione interna tra l’ala pragmatica, propensa a un accordo negoziale, e quella radicale, votata alla lotta ad oltranza. I secondi, desiderosi di imporre la propria presenza attraverso il ricorso a una sempre più violenta offensiva per portare quella che è una guerra di liberazione nazionale all’interno di un conflitto globale su base ideologica.

Infine, dipenderà anche da cosa deciderà Washington e da quali elementi innovativi introdurrà la nuova strategia per l’Afghanistan. Difficile ipotizzare qualcosa di radicalmente nuovo, essendo state adottate e sperimentate, dal 2001 a oggi, molte strategie militari. È immaginabile un aumento di truppe, in particolare forze speciali e addestratori, e maggiore azione aerea contro obiettivi di “alto valore” strategico. Ma ancora una volta, non sarà lo strumento militare a fare la differenza.


Libia: ritorno al Trattato “Berlusconi-Gheddafi” del 2008? Sarebbe un bene

Difficile, quasi impossibile riproporre il trattato del 2008, date le condizioni di sicurezza della Libia. Ma l’Italia ne trarrebbe indubbi vantaggi: dai crediti vantati dalle aziende italiane alla cooperazione per il contrasto ai flussi migratori illegali.

di Claudio Bertolotti 
per gentile concessione del sito www.claudiobertolotti.com

Il trattato di amicizia e cooperazione italo-libico del 2008 non è un semplice trattato di amicizia tra i due paesi ma è un vero e proprio accordo programmatico che guarda(va) a un rapporto speciale e privilegiato di partenariato tra i due paesi, in particolare nell’ambito dell’Unione Europea e in quello dell’Unione Africana, in un’ottica di cooperazione Europeo-libica in cui ad avvantaggiarsi sarebbero entrambe le parti.

In questo caso il vantaggio di un ristabilimento di quanto previsto dal trattato sarebbe vantaggioso per entrambi gli attori, Libia e Italia, ma sarebbe guardato con grande diffidenza dalla Francia che, con ogni probabilità farà il possibile affinché tale scenario possa difficilmente realizzarsi.

Ma il trattato del 2008, che è molto ben strutturato sul piano delle relazioni internazionali e sul ruolo di non ingerenza dei due paesi, si compone anche di una parte, la seconda, che è molto impegnativa per l’Italia, chiamata a svolgere un ruolo oneroso nella realizzazione di progetti infrastrutturali di base in Libia, da realizzarsi ad imprese italiane, per un importo di 5 miliardi di dollari in 20 anni, totalmente a carico dell’ENI attraverso un’imposta sul reddito della società. Un vincolo, imposto dalla Libia, per chiudere qualunque contenzioso riferito al “passato coloniale” dell’Italia. In questo caso potrebbe esserci un vantaggio relativo da parte dell’Italia per chiudere un’annosa questione che di per sé non avrebbe ragione d’essere non essendo il colonialismo all’epoca un fatto contrario al diritto internazionale. Ma tant’è, la rilettura dei fatti storici passa anche attraverso l’opportunità del momento.

Il vantaggio principale che ne avrebbe l’Italia, relativamente all’attività di cooperazione sul piano dello sviluppo imprenditoriale e del commercio, riguarda i crediti vantati da aziende italiane verso amministrazioni ed enti libici, calcolato in quasi 700milioni di euro, solo in conto capitale, a fronte di un credito complessivo stimato in circa 2miliardi di euro. Se l’accordo dovesse essere in qualche misura riattivato, allora le imprese italiane dovrebbero riuscire a recuperare qualcosa di quanto perso, sebbene sorgano forti dubbi sulla fattibilità di questa opzione. Anche in questo caso, un’interferenza francese avrebbe dirette ripercussioni sull’economia nazionale italiana, già fortemente provata.

Un altro grande vantaggio fondamentale che l’Italia, attraverso l’ENI, punta a ristabilire è l’accesso alle risorse energetiche ai livelli pre-2011, momento dell’abbattimento del regime di Gheddafi. Allora l’Italia importava dalla Libia il 25% del fabbisogno energetico nazionale, oggi meno dell’8%; un’opzione strategica, quella libica, a cui l’Italia non può rinunciare, tenendo altresì conto dei contratti in essere tra l’ENI e il governo libico (quale che sarà) teoricamente validi fino al 2047.

Infine, nel campo della difesa e della sicurezza nel trattato viene preso impegno a realizzare “un forte ed ampio” partenariato industriale e delle industrie militari, nonché la conduzione di manovre congiunte. Ma la questione che oggi pare essere quella più rilevante è quella relativa al contrasto all’immigrazione clandestina attraverso la Libia e il Mediterraneo e al terrorismo.

L’art. 19 del Trattato del 2008 ribadisce la disponibilità delle due parti al pattugliamento con equipaggi misti con motovedette messe a disposizione dall’Italia – cessione di motovedette che è già stata in parte effettuate e in parte è in corso. Un’altra opzione che l’Italia ha proposto e la Libia ha accettato è la realizzazione di un sistema di telerilevamento alle frontiere terrestri libiche, in affidamento a società italiane. Un sistema piuttosto oneroso per l’Italia in termini di risorse economiche (previsto per metà a carico dell’Italia e per l’altra metà dell’Unione Europea) ma non di personale, in quanto non prevede il dislocamento di forze di polizia italiane. Ma al tempo stesso una scelta di opportunità che al momento non vede possibilità di realizzazione a causa della sostanziale assenza di controllo territoriale sui confini da parte delle forze di sicurezza facenti capo al presidente al-Sarraj.

Va tenuto poi conto che la frontiera sud, quella con il Niger – dove l’impegno economico dell’Unione Europea si è rivelato tutt’altro che soddisfacente –, vede un’ampia presenza di forze militari francesi, sostanzialmente disinteressate ai flussi migratori attraverso il territorio nigerino e verso la Libia.

Il business criminale legato al traffico illegale di esseri umani rappresenta più del 40% del Pil libico; insieme al traffico illegale di idrocarburi, beni di contrabbando e archeologici

Un fattore fortemente determinante, ai fini della realizzabilità del trattato del 2008, è dato dal fatto che oggi, volenti o nolenti, il business criminale legato al traffico illegale di esseri umani rappresenta più del 40% del Pil libico; e insieme a questo anche il business del traffico illegale, di cui una buona parte destinato all’Italia, di idrocarburi, beni di contrabbando e archeologici. Difficile pensare di contrastare una così estesa economia parallela senza andare a toccare gli interessi, non solamente delle organizzazioni criminali, ma anche quelli delle famiglie e dei tanti cittadini libici (e non solo) che vivono grazie a questa.

Ora rimane un punto di fondo che rende tutto ciò non facilmente realizzabile: il fatto che la Libia sia sostanzialmente divisa in feudi e centri di potere, con due parti principali contrapposte, Tripoli e Tobruch, rispettivamente rappresentate dal presidente Fayez Al-Sarraj e dal generale Kalifa Haftar, e sostenute da attori che hanno una visione differente di quella che dovrebbe essere la Libia. Da una parte la maggior parte della comunità internazionale, con un ruolo importante dell’Italia a sostegno di al-Sarraj, forte del riconoscimento della Nazioni Unite ma sempre più marginale e ininfluente; dall’altra parte, con Haftar, l’Egitto, la Russia, e anche una Francia sempre più ambigua e monocratica nelle sue prese di posizioni in seno all’Unione Europea e al Mediterraneo.

Insomma, grandi scogli si frappongono fra le ambizioni italiane, l’interesse nazionale e la stabilità della Libiain primis le spinte centripete che vengono impresse dagli attori che giocano sotto banco una partita controproducente per l’Italia e per la stessa Europa.